Vecchio Giorgio 6

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Racconti della serie : LAVORO

 

IL PRIMO IMPIEGO ALLA FLESSIBILE ITALIA ASSUNTO ! ANZI, NO !  ALTRO IMPIEGO VITTIMA DI UN FURFANTE 

 

IL PRIMO IMPIEGO


Terminati, si fa per dire, gli studi, adesso ero un disoccupato in cerca di lavoro. Mi venne in mente, ora che il tempo non mi mancava, di andare in visita aI mio Istituto. Molti di coloro che vi avevano studiato, ritornavano qualche volta a trovare il professor Morelli, al quale, si capiva, queste manifestazioni d’affetto erano gradite. Anch’io, in precedenza, vi ero andato a confessare le ragioni del mio fallimento scolastico. Anziché biasimarmi, il Preside, mi aveva consolato con questa battuta: "Bene, bene perché, se anche lei si laureasse, chi mi riparerebbe la radio?".

Questa volta mi accolse con un: "Eccolo qua il nostro radiotecnico!". Capii che aveva poco tempo da dedicarmi, poiché aggiunse subito: "Venga con me!". Lo seguii: due passi e ci trovammo davanti all’aula piccola, da cui proveniva uno schiamazzo: aprì la porta: le tre ragazzine presenti scattarono in piedi, ammutolendo. Il Professore si rivolse a me: "Ecco, veda di impartire, a queste graziose signorine, i primi elementi d’algebra.". E senza dir altro, uscì chiudendo la porta. Diavolo d’un Preside, con una mossa tattica, era riuscito diplomaticamente a impegnare me e a zittire le tre starnazzanti studentesse. Non solo, ma aveva scelto la lezione che m’incaricava d’impartire, secondo il mio grado di competenza in materia. Ed, ora la patata bollente era in mano mia.

Ero imbarazzato: tre femmine in erba mi guardavano serie. Mi era già capitato all’Istituto quando, quattordicenne, lo frequentavo. Una compagna mia coetanea, carina, intelligentissima; con la quale, ogni giorno, cicalando, percorrevo buona parte di strada verso casa; aveva l’abitudine, nel camminare, di fissarmi intensamente, con i suoi occhi neri, profondi, scrutatori, che sembrava volessero succhiare il mio pensiero. Questo, mi metteva molto a disagio. Ci si divideva alla fermata del suo tram. Lei vi saliva, e ci salutavamo con un: "Ciao!". Io proseguivo a piedi, stralunato. Passarono anni, poi arrivai a dedurre che, quando una donna ti guarda così, è perché vuol capire, se hai interesse per lei. Quando poi lo sa, è capacissima di buttarti a mare. D’accordo: come tombeur de femmes, sono sempre stato un fallimento. Transeat.

Ritenni di rompere il ghiaccio con un "Buongiorno", a cui le tre ragazze in coro risposero quasi tramortendomi: "Buongiorno, professore!". Pensai: "E ora? Se dico loro che semmai sono
asino e non professore, domani i loro genitori farebbero chiudere l’Istituto. Meglio per tutti non deluderle!". Presi il gesso e avvicinandomi alla lavagna spiegai: "In aritmetica, siamo abituati a risolvere le operazioni con i numeri. Sulla lavagna scrivo, per esempio, 4 + 2 = 6. In algebra la medesima operazione la si può indicare con lettere. E allora scrivo A + B = C. Questa espressione costituisce una formula, la quale mi insegna che, se a una quantità A, aggiungo una quantità B, ottengo un totale C, il quale rappresenta la somma dei due addendi. Analogamente si può procedere con altre operazioni. Ecco qui 3 X 4 = 12, che in algebra può essere indicato con: D x E = C, anzi si omette il segno x , essendo inutile, quindi si scrive D E = C....". In quel momento, suonò la campanella di fine lezioni, le studentesse ebbero un fremito d’impazienza, e incominciarono a raccogliere sul banco le loro robe. Interrompendo, felice, quanto stavo spiegando, le ripresi
dolcemente: "Vedo che siete impazienti di uscire, si capisce: lo stomaco reclama e distoglie l’attenzione. Penso sia meglio riprendere l’argomento domani. Buongiorno!". Quelle sfollarono veloci con un: "Buongiorno, Professore!". Ti pareva.

Nell’uscire dall’aula, intenzionato a prendere commiato da Morelli, me lo trovai innanzi: era un uomo schivo di preamboli: "Venga un attimo in presidenza!". Chiuse la porta: "S’accomodi!". Non mi chiese come era andata la lezione d’algebra. Invece: "Mi dica: lei adesso ha un lavoro?". Lo aggiornai: "Ho collaborato con mio padre nella sua ditta sino allo scorso mese, poi gli affari sono andati male e abbiamo chiuso.". Senza commenti, il mio Professore riprese: "Ieri è stato qui a farmi visita un mio ex allievo, il quale oggi è titolare di un’azienda, che vende vetrerie all’ingrosso. Mi ha chiesto l’indicazione di un giovane per bene, disposto a lavorare nella sua amministrazione, come apprendista impiegato. Lei, se la sente?". Rimasi un attimo perplesso, ed egli indovinò al volo: "Ho capito: naturalmente, lei preferirebbe un laboratorio radiotecnico. Allora facciamo così: questo è il biglietto con l’indirizzo della ditta: Pietro Pozzi - Vetrerie e Porcellane - Via Bramante, 15. Se si decide, domani vada a nome mio. Ci pensi!". Si alzò, mi alzai, mi diede una pacca sulla spalla: "Arrivederci!" e mi aprì la porta della presidenza. "Molte grazie, professore!".

Era scontato che i miei famigliari mi avrebbero consigliato di accettare, quell’ impiego. Mi sarei guadagnato qualche soldo, in attesa di trovare qualcosa di meglio

Via Bramante 15. L’androne immette in un cortile interno, dove si vedono degli operai al lavoro, ma subito a sinistra noto una porta a vetri su cui è scritto in oro: Pietro Pozzi - Cristallerie e Porcellane - Ufficio - Avanti! Appena entrato in un’anticamera buia, mi si presenta un impiegato con gli occhiali: "Desidera?". Intimidito informo:

"Vengo da parte del Professor Morelli dell’Istituto... L’azienda è piccola e quindi tutti sanno tutto. "Ah! Sì ho capito: è per quel posto d’apprendista. Attenda lo dico al capufficio!". Apre un uscio: "Signor Carlo, è qui un giovanotto per l’assunzione...". Una voce, in meneghino, comanda: "Che le faga vegnì avanti!" (tr.: Lo faccia entrare!) Entro nell’ufficio. Odore di mobili vecchi. Ci sono due tavoli, una scrivania, una cartelliera, un armadio, qualche scaffale e una porta aperta dove si intravede un altro locale. Alla scrivania è seduto un ometto, sui cinquanta, con cravatta, mezzemaniche nere e coppola. Mi squadra, capisco che si aspettava un ragazzino in calzoni corti e camicia aperta, insomma: il classico tipo di apprendista. Io sono alto, porto calzoni lunghi e cravatta. Mi assalta con un italiano maccheronico, di chi è abituato parlare in dialetto: "Lei di dove l’è?"; e quando gli rispondo che sono di Milano, esclama: "Meno mal che l’è no
un teron, ma alora: perché el parla no milanes?" (tr.: Meno male che non è un terrone, ma allora perché non parla milanese?) Gli spiego che sono di famiglia veneziana, ma nato a Milano. A domanda, l’informo sul mio nome, domicilio, titolo di studio, di saper scrivere a macchina, di aver già lavorato nella ditta di mio padre e altro. A fine interrogatorio mi dice: "Adess, ch’el se comoda su quella cadrega, fin che ven el scior Pozzi, che l’è el titolare." (tr.: Si accomodi su quella sedia in attesa che arrivi il titolare, signor Pozzi) Penso, che per il mezzemaniche, che poi è il contabile della ditta, potrei andare bene, però per lui sarei l’ideale, se parlassi un italiano meno corretto, e non portassi la cravatta che, come apprendista impiegato, dà un po’ di soggezione.

Poco dopo si spalanca la porta, ed entra un uomo di media statura un po’ grassotto, intuisco subito che è il padrone, ma pure, che dev’essere un brav’uomo, una specie di burbero benefico goldoniano; mi dà una rapida occhiata: ha capito, ma non mi dice nulla. "Bondì scior Carlo. Se gh’è de nœf ?". (tr.:Buondì signor Carlo che c’è di nuovo?). Risponde così al saluto del contabile, il quale alzandosi lo invita: "Andemm de là on moment." (tr.: Andiamo di là un momento). Spariscono nel localino chiudendo la porta.

Rimango solo coll’impiegato, finora seduto a lavorare alla sua scrivania. Si presenta: "Piacere, sono Mauro". E’ gentile, parla un buon italiano, e mi anticipa: "Per quanto conosco il signor Carlo, credo che lei sarà assunto. Altrimenti l’avrebbe già buttata fuori. E’ un uomo brusco, spesso scortese, che non fa tanti complimenti. Il signor Pozzi invece è una brava persona: sempre gentile con i dipendenti." Mi spiega: "Lui si chiama Giuseppe ma tutti lo chiamiamo col diminutivo di Pino. Pietro era il padre, fondatore della ditta.".

Intanto entra un tizio: giovane, alto, ben vestito, cravatta
a farfalla e una cartella in mano: "Salve Mauro: i mister dove sono? Di là?". L’impiegato risponde al saluto e asserisce con la testa, il tizio allora, senza bussare, entra e richiude la porta. Mauro commenta: "Ecco: il concistoro è al completo. Quello che è entrato adesso, è il signor Paolo, il rappresentante della ditta, è simpatico e alla mano, ma qui si vede soltanto quando porta le commissioni, o quando organizza bisbocce con gli altri due.".

Mezz’ora dopo Paolo esce: "Salve, Mauro." e se ne va. Alla porta aperta si affaccia Carlo, mi chiama e mi presenta al titolare: "Questo è il ragazzo, mandato dalla scuola...". Il principale, non è affatto portato alle cerimonie: mi dà la mano: "Salve, è vero che lei ha studiato all’Istituto? Anch’io: tre anni, è una bella scuola. Sono contento, qui si troverà bene, adesso vadi di là che il signor Carlo gli dirà quello che deve fare.".

Esco chiudendo la porta, e devo attendere ancora una mezzora, prima che venga fuori anche il contabile: "Donca: qui l’orario è dalle 8 e mezzo, alle 12 e mezzo; e dalle 2 e mezzo del pomeriggio alle 6 e mezzo. Oggi è venerdì, alora: lu el comincia lunedì che ven. L’ha capii? Lunedì prossimo. Ha capito?... Può andare.". Rispondo: "Sì, ho capito. Grazie, buongiorno!", e lui "Ch’el staga ben!". Un cenno amichevole di saluto a Mauro, che mi guarda di sottecchi, e me ne torno a casa.

Racconto tutto in famiglia, non si meravigliano della mia assunzione, l’argomento è chiuso. Chiedo a Mamma se ha smacchiata la mia divisa d’avanguardista, che mi si era unta la settimana passata, maneggiando il moschetto. Dopodomani ho la solita adunata.

Il lunedì successivo sono, puntuale: alle 8,30 in ufficio. Mauro è già presente, e mi informa che ha l’incarico di insegnarmi il lavoro. Mi accompagna in fondo al breve corridoio d’entrata, nel locale del campionario. E’ illuminatissimo, e corrusco di riflessi emanati dalla grande quantità di oggetti, di cristallo e di porcellana, chiusi in teche, oppure adagiati su scaffali con piano di vetro molato. C’è anche molta posateria. Il collega, ormai lo posso chiamare così, mi chiarisce: "Qui, il signor Carlo o io, accogliamo i clienti e stendiamo le ordinazioni. Ogni oggetto porta un’etichetta, col numero di catalogo e la marca. Questi riferimenti servono anche quando, battendo a macchina le fatture, si ha qualche dubbio, per una non chiara descrizione. Adesso andiamo in magazzino."

Usciamo dall’ufficio e ci troviamo nell’androne. Di fronte all’entrata della ditta c’è, in pendant, un’altra porta a vetri; Mauro mi precisa: "Là, si trovano la portineria e le scale: servono ai condomini per andare ai piani superiori. I locali di piano terra sono tutti di proprietà del signor Pozzi e riservati ai nostri depositi.". Andiamo avanti e arriviamo nel cortile, il quale è completamente coperto da una cupola di vetro armato, con vasistas di aerazione. Ci sono alcuni operai, intenti a incartare e a incassare degli oggetti: quando ci vedono, smettono di lavorare e, in silenzio ci guardano; ma la mia attenzione è carpita da una bellissima automobile nuova, con una linea sfuggente, aerodinamica. Mauro, quasi con orgoglio, esclama: "E’ appena uscita di fabbrica, FIAT 1500 anno 1935 ultimo modello, costa 12.000 lire di listino: è del signor Pino... Oh! Ecco Algide! Algide è il nostro magazziniere.". L’uomo, è alto, corporatura robusta, capelli ondulati e neri: mi colpisce il suo naso, grosso e camuso. Mi stringe la mano: "Piacere! Lei è il nuovo impiegato vero? Ho indoinà!" (tr.: Ho indovinato!) Quest’ultima esclamazione mi dice che anche lui è di Milano o dintorni. Intanto gli operai, appagata la curiosità, riprendono il lavoro, e noi ritorniamo in ufficio.

Il contabile è al suo posto e ci accoglie: " T’ei chi i sciori impiegati! Intant mi ho guardàa i client!". (tr.: Eccoli qui i signori impiegati, intanto io ho serviti i clienti!) Mauro risponde freddo: "Sto soltanto eseguendo gli ordini, che lei mi ha dato l’altro giorno.". Poi, rivolto a me: "Adesso le insegno i lavori di cui lei si deve occupare: primo fra tutti l’uso del "copialettere". La carta carbone era già stata inventata, ma resisteva ancora qualche ufficio, come il nostro che, per inerzia, non aveva ancora abbandonato il torchio.

Il metodo consisteva in una vaschetta di lamiera, entro la quale si inumidivano con acqua, delle pezzuole di tessuto spugnoso del formato carta da lettere. I testi da riprodurre, dovevano essere scritti con inchiostro copiativo, a macchina o a mano. La copia si otteneva su un apposito registro, chiamato "copialettere", consistente in un libro di fogli di carta velina. L’originale, si inseriva nel libro, si ricopriva con una delle pagine di carta velina e, al di sopra di questa, si sistemava una delle pezze umide. Era possibile continuare, inserendo altro originale, altra velina e altra pezza, sino all’esaurimento degli originali. Chiuso il copialettere, lo si pressava sotto un torchietto, girandone il manubrio. L’umidità delle pezze, attraversava i fogli di velina. e raggiungeva la scritta copiativa del sottostante originale, la quale, sciogliendosi parzialmente, lasciava traccia sulla velina medesima. Dopo qualche minuto, si ritirava dal torchio il registro, sui cui fogli rimanevano riprodotte le copie degli originali.

Rispondere al telefono e riferire, o battere a macchina lettere commerciali, erano operazioni di cui avevo già acquisito pratica nella ditta di Papà, e quindi non mi crearono problemi nel nuovo impiego.

Molto più impegnativo era il compilare le fatture. Le difficoltà stavano nei calcoli che si dovevano eseguire a mente, vale a dire senza l’ausilio di macchine addizionatrici, delle quali gli uffici erano ancora sprovvisti. I prodotti che vendeva la ditta, avevano prezzi anche con decimali di lira, e le quantità, quando andava bene, erano fissate in dozzine o mezze dozzine, per cui, se un bicchiere costava £ 1,73, l’importo per tre dozzine, comportava una moltiplicazione a memoria di 3 x 12 x 1.73. La cattiveria mi sconsiglia di riportare qui il risultato. In ogni foglio di fattura, scritto a macchina, vi era spazio per una quarantina di operazioni, a cui corrispondevano altrettanti addendi, che, sempre a memoria, si dovevano poi sommare per ricavarne il totale.

Questo lungo ragionamento, per concludere che, in una giornata passata a moltiplicare e a tirare somme in tali condizioni, era possibile, e a me qualche volta succedeva, errare uno o due calcoli. Apriti cielo! Quando Carlo il contabile, nel verificare le fatture prima della spedizione, rilevava un mio errore, andava in escandescenze e, da becero quale era, non risparmiava le più turpi bestemmie. Ciò non avveniva se presente era il principale, nel qual caso il becero si limitava ad un semplice motto di stizza, perché sapeva che il signor Pozzi, mi aveva in istintiva simpatia, in relazione al fatto che avevamo frequentato la medesima scuola.

Le sfuriate del mio capo, quando avvenivano, mi scardinavano il sistema nervoso, procurandomi forte tachicardia. Avrei voluto dirgli, e avrei fatto bene a dirglielo, che se io ero pagato per scrivere fatture, lui lo era per farne il controllo. Invece stavo zitto, e questo mio atteggiamento, che evidenziava la maleducazione di quell’essere incivile, gli dava un certo disagio, per cui dopo aver trasceso, gridando porco qui e porca là, egli concludeva quasi a propria giustificazione: "E già, lu el bestemma no, perché l’è ateo". (tr.: E già, lei non bestemmia perché è ateo.).

Per lavoro andavo frequentemente nel magazzino. Era un ambiente simpatico, giacché Algide, intelligentemente, trattava alla pari gli operai che da lui dipendevano. Fu facile anche per me
entrare in confidenza con tutti loro. Carletto e Piero, i due imballatori, avevano saputo, in via di discorso, dal loro capo, che io ero nato a Milano, e non capacitandosi che un milanese, quale io ero, si esprimesse soltanto in italiano, si misero in testa di farmi dire qualche parola in dialetto, per ridere alle mie spalle: una perdonabile celia. Quando venne l’occasione infatti, Carletto mi chiese nell’unica "lingua" che parlava: "L’è vera che lu l’è milanes?". (tr.: E’ vero che lei è milanese?) E quando ebbe la mia conferma, mi sottopose ad un test scioglilingua: "Ch’el prœva a dì: tri œf cot in del fœg.". (tr.: provi a dire: tre uova cotte nel fuoco). Tranquillamente risposi in perfetto meneghino "Tri œf cot in del fœg.". I due operai si misero a ridere, increduli e allibiti, esclamando: "T’e vist che l’ha dì?". (tr.: Hai visto che l’ha detto?). Da quel giorno mi considerarono come uno di loro, che conosce una lingua straniera: l’italiano.

Una volta la settimana, solitamente capitava di venerdì, il signor Pino, Paolo e Carlo si riunivano nel piccolo locale del principale, per concertare programmi di lavoro; ma quel giorno il "concistoro" avvenne accidentalmente presso la scrivania del contabile; mentre io ero intento a scrivere a macchina. Finito di parlare di piatti, di clienti e di soldi; Paolo, il rappresentante, chiese agli altri due: "Cosa fate domenica? Ho scoperto un bel ristorantino rustico in Brianza, proprio come si deve, tavoli all’aperto sotto un pergolato di glicine, buona cucina, ottimi vini...". Carlo lo interruppe sottovoce, ma non abbastanza: "El ga anca i camer de let?".(tr.: Ha pure camere da letto?). Il signor Pino, si rivolse a me, che continuavo a scrivere, e ridendo m’intimò: "Lu ch’el scolta no!". (Lei non ascolti!); ma Paolo stava già rispondendo, una volta tanto, in milanese: "Sì, e anca dei bei tosann.".(Si, e anche belle ragazze!). Poi i tre continuarono, chinandosi e avvicinando le teste, a parlottare sul tavolo di Carlo. In fine Pozzi rialzandosi concluse: "Alora, domenica, andem con la mia macchina nœva, così fo un po’ de rodaggio.". (tr.: Allora domenica andiamo con la mia macchina nuova, così faccio un po’ di rodaggio.).

Io ero molto espansivo con i miei genitori, non avevo per loro alcun segreto, era naturale quindi che li mettessi al corrente, delle scenate che, Carlo il contabile, metteva in piedi ad ogni mio errore di conteggio. Papà mi diceva di sopportare, perché così è fatta la vita. Mamma, invece ne rimaneva rattristata; e spargeva voce presso le poche sue amicizie, con la speranza di potermi trovare un’occupazione presso qualche laboratorio. Un giorno, ella disse a mio padre, che il dottor Lauro, marito di una nostra conoscente, le aveva fatto sapere, di essere in grado di sistemarmi, in un’azienda di elettrotecnica. Ne nacque una breve scaramuccia coniugale, sul modo di educare i figli, me compreso; dopo di che il paterfamilias si dichiarò vinto, con un rabbioso: "Fa quel che ti vol!". (tr.: fa quello che vuoi!). E chi avrebbe scommesso per il contrario?

Col supporto materno, rassegnai le dimissioni alla ditta Pozzi, inventando una bella frottola, sul mio deperimento organico e sul consiglio del medico, di cercarmi un’occupazione da svolgere all’aria aperta. Carlo non fece una piega, ma sicuramente, sotto sotto, si fregava le mani, pensando che non tutti gli apprendisti portano i calzoni lunghi: infatti da quel cafone che era, dichiarò, riferendosi al prossimo assunto: "Basta col lei: a quel ch’el ven adess, ghe do del ti". (tr.: Basta col lei. Al prossimo apprendista darò del tu.) Il signor Pino invece, quando lo seppe, mi chiamò nel suo studio: "L’è vera che vuole andare via? Me rincress, mi dispiace, perchè lei l’è un bravo fiolett. Che ci pensi, magari potrebbe lavorare all’aperto, nel magazzino, con l’Algide.". Tenni duro, allora lui, rassegnato, riprese: "Lei mica ha un amico che verrebbe al so post!". Contento l’informai: "Si che ce l’ho, signor Pozzi, è un mio compagno dell’Istituto.. Si chiama Borroni e cerca lavoro. Posso chiederglielo.". Il mio ormai ex principale subito esclamò: "Brao! Un alter dell’Istituto! Allora me lo manda!". (tr.: Bravo! Un altro dell’Istituto. Allora me lo mandi).

Glielo mandai e fu assunto. Carlo Borroni lo avevo conosciuto, come compagno di corso all’ "Istituto", aveva due anni meno di me. Un ragazzo tranquillo, con cui ci si incontrava anche alle adunate degli avanguardisti. Abitava in via Belinzaghi, a due passi da casa mia. Ricordo le lunghe passeggiate in bicicletta con cui, dopo cena, occupavamo la sera conversando e pedalando, alla scoperta di una Milano by night, che ancora non c’era. Erano ore rilassanti. Con Carlo, quando io cominciai a frequentare l’Istituto Radiotecnico, avevamo di molto rallentato i nostri incontri.

 


ALLA FLESSIBILE ITALIA


Il dottor Lauro, tramite sua moglie m’inviò un biglietto di presentazione per il Capo del personale, della Società "Flessibile Italia". Un mattino d’inverno, mi recai in fondo a via Bassini, praticamente a Lambrate dove distinsi, nella foschia, il basso edificio di recente costruzione, di quella società. Mi presentai agli uffici: con citofono chiamarono il dirigente del personale. Era un uomo sulla cinquantina, capelli scuri, muso duro e distintivo PNF. Probabilmente vendeva le sue parole a peso d’oro, perché guardò il biglietto e mi liquidò così: "Venite domani, alle otto, con la tuta blu.". Senza salutare girò sui tacchi e se ne andò. Ebbi l’impressione che questa mia assunzione fosse stata concessa, obtorto collo, per riguardo al dottor Lauro, che era un alto dirigente della Prefettura.

Alla sera puntai la sveglia per le sei e mezzo, ma la mattina, alle sei ero già in piedi, con lo stato d’animo di chi si prepara ad andare dal dentista. In cucina, trovai Mamma ai fornelli, intenta a prepararmi la colazione di mezzodì: un quarto di pollo arrosto, con cavolfiori scottati, impanati e cotti al burro: il tutto compresso nella schiscetta. Mi vennero in mente i tempi dell’asilo, e il cestino di paglia che ella mi preparava con tante buone cose. Il giorno prima, andando con lei ad acquistare la tuta blu, ci eravamo chiesti come mai avrei dovuto indossare quell’indumento: nei laboratori il personale usava normalmente camici bianchi, oppure neri. Consumai una tazza di caffelatte e pane, per apparire indifferente, ma non ne avevo affatto voglia. Alle sette meno dieci, con sottobraccio l’involto di tuta e colazione, ero già a bordo del primo tram. Per andare a Lambrate ne dovevo prendere tre.

Quella mattina di gennaio, a Lambrate, la nebbia era densa e faceva molto freddo. Salii agli uffici, ma mi dissero di presentarmi in portineria, giù, dov’era il cancello del passo carraio. Trovai subito, perché alcuni operai stavano entrando dall’apposito passaggio per timbrare, poco più in là, la scheda di presenza. Il portiere, che poi era la guardia giurata dello stabilimento, mi diede brevi istruzioni, per cui: rintracciai e timbrai, abbassando la leva, il mio cartellino; mi diressi in mezzo agli altri operai negli spogliatoi; cercai un armadietto vuoto e mi cambiai d’abito. Nello stipo depositai il pacchetto della colazione e i vestiti appena tolti, avendo cura di trasferire il portafoglio nella tuta appena indossata. Vidi che molti armadietti erano bloccati con un lucchetto e mi ripromisi di acquistarne uno. Tutte queste operazioni, le svolsi senza scambiare parola con altri, e senza che altri parlassero tra loro. Nel freddo dell'ambiente, si udivano soltanto rumori: fruscii di abiti e sbattimento di portine metalliche in chiusura. Credo che all’inferno le cose vadano così.

All’urlo della sirena d’inizio lavori, cerco il capoofficina, e non fatico a vederlo in mezzo al cortile, tra gli spogliatoi e il capannone: è là, solo, con le mani dietro la schiena, a controllare l’entrata dei lavoratori. Mezz’età, biondo sotto la coppola, con un paio di baffoni alla Stalin e occhi arcigni. Quando m’avvicino m’anticipa: "Ti te set quel nœf?" (tr.: Tu sei quello nuovo?). Al mio: "Sì.", non si muove, e continua ad osservare gli operai; poi, senza parlare, s’incammina in coda all’ultimo; ma, fatti cinque passi, si volta a guardarmi bieco, come a dire: "Ma non hai capito che mi devi seguire?". Ricupero velocemente i passi perduti. Il capannone è lunghissimo, ma ci fermiamo al secondo reparto. Un cartello informa: "Sezione collaudo". Il lavorante del primo bancone, è un giovane sulla trentina, baffetti, serio, non antipatico, che mi guarda stranamente, mentre il capoofficina gli dice soltanto: "Quest’ chi, l’è quel là." (tr.: Questo è quello là). e se ne va.

Altro che laboratorio! Questa è una fabbrica di motori di media potenza, mono e trifase, e di macchine utensili varie: seghe a nastro, circolari e a catena, martelli pneumatici ecc. L’Azienda ha preso nome da un prodotto in cui è specializzata: l’albero flessibile. La "Sezione collaudo", è il reparto dove le macchine appena costruite, vengono messe a punto e provate strumentalmente; prendono poi la strada del deposito, previa verniciatura con antiruggine e abbondante spargimento di grasso sulle parti di movimento. Oggi invece, si devono prelevare dal magazzino, delle seghe a nastro, per soddisfare una richiesta dell’ufficio vendite. Il mio capetto, che si chiama Luigi, mi ordina: "Va’ al deposito, e porta qua una sega a nastro.". Mi informo gentilmente: "Per favore dov’è il deposito, e cos’è la sega a nastro?". E quello seccato: "Il deposito è là in fondo, e poi non sai cos’è la sega a nastro? Ma dico io... va’, va’!". Penso, un po’ beffardo: "Sono assunto con la qualifica di ‘apprendista operaio’, ma mi sa, che qui nessuno m’insegna niente."; e mi avvio. Fatti due passi, odo un: "Ehi, tu! Dove vai?". Mi volto è Luigi, dico mellifluo: "Al deposito, no?". Quello mi canzona: "E allora portati il carrello, no?". Prendo il carrello e camminando mi dico che, se va avanti così con questo mio comandante, finiremo per imitare i comici Walter Chiari e Carlo Campanini, nello sketch dei fratelli De Rege: "Vieni avanti cretino!". Ma, sinceramente, non ho voglia di ridere.

Nuovo del vastissimo ambiente, devo più volte chiedere indicazioni agli altri operai i quali, è da dire, rispondono civilmente senza infastidirsi. Individuato l’oggetto, lo carico sul carrello e lo porto al mio reparto dove, con Luigi, che non mi perdona un: "Ma quanto ci ha messo!", lo alziamo e lo deponiamo sul bancone. Gli tolgo la carta che lo ricopre: adesso vedo bene come è fatta una sega a nastro, e mi accorgo di conoscerla già per averne viste, anche in funzione, durante una visita alla Fiera Campionaria. Ora devo ripulirla dalla vernice antiruggine e dal grasso protettivo, con cenci, acetone, petrolio e mani nude: un lavoro banale, ma necessario.

E’ mezzogiorno, ecco la sirena. Corro in mezzo a tanti altri ai gabinetti, per lavarmi lungamente le sozze mani, poi a prendere il mio pasto nello stipo, e infine nel refettorio a consumarlo. Non parlo con nessuno, salvo improbabile necessità. Mi sento estraneo, come un pesce fuor d’acqua, in un ambiente che non posso nemmeno giudicare nemico. Eppure, raccolgo degli sguardi sfuggenti di curiosità che, a mia volta, m’incuriosiscono.

Alla una, altra sirena, ed entrata degli operai ai reparti, ma questa volta con tutta calma, e io mi adeguo. Ormai conosco il mio lavoro: vado al deposito; prelevo una macchina, la porto al bancone, la ripulisco. Ogni tanto, arriva il carrello elettrico del reparto imballaggi e si porta via le macchine già pronte. Luigi mi stimola sempre: "Fai andare le manine, caro?". Forse ha ragione lui giacché, di natura, non sono portato a fare le cose alla carlona.

Alle cinque, ultima sirena, e altra corsa a lavarsi e a rivestirsi; poi in coda all’uscita per marcare il cartellino. Una sera, alcuni giorni dopo, appena abbasso la leva dell’orologio per la timbratura, scatta, forte, un campanello d’allarme. Mi arresto impietrito e sono assalito dalla guardia giurata la quale, senza dire nulla, mi palpa tutto, dalle caviglie al cappello, che mi toglie e mi pesta in mano; poi se ne va. Resto fermo, a chiedermi cosa volesse quello là. L’operaio dietro di me, intuendo che ero di primo pelo, mi urta di spalla la schiena: "Va’ avanti. E’ il controllo a campione.". Finalmente capisco, e mi chiedo come potevano sospettare che avessi nelle tasche una sega a nastro. Invece, non avevo capito niente: una sega a nastro no, ma un pugno di bulloni, un interruttore, dieci lampadinette al neon; roba che sta comodamente nelle tasche, o nascosta tra i vestiti; era facile sottrarla, per esempio: alla catena di montaggio. Quella sera, prima di rincasare, acquistai da un ferramenta un piccolo lucchetto e, provvidamente, un barattolo di pasta "sbiancamani".

Tra lavoro, scuola serale e adunate fasciste, mi rimaneva poco tempo, in famiglia, di parlare del mio lavoro. Trovai modo però di chiedere a Mamma, in quali termini aveva prospettato alla signora Lauro di interessarsi al mio caso. Ne risultò, che quella signora, era soltanto una damazza, la quale aveva sposato un uomo importante, ma che nella sua abissale ignoranza, della mia situazione, aveva creduto di capire soltanto che io desideravo "fare l’operaio". A me non restava che ringraziare, ma non ringraziai.

Praticamente, quattro chiacchiere in famiglia, le potevo scambiare solo la domenica a pranzo. Parlavo dei miei progressi all’Istituto Radiotecnico e delle mie esercitazioni con gli avanguardisti, ma evitavo accuratamente di accennare al mio lavoro. Se ne accorse Papà il quale mi domandò: "E col lavoro come ti va?". Risposi, ostentando indifferenza: "El xe un lavoro come tutti gli altri!". Capii che egli apprezzava il mio ritegno, comunque replicò: "A mi non ti me la conti!".

Alla "Flessibile Italia", passati giorni e giorni a ripulire apparecchiature, o a verniciarle di antiruggine, trovo una mattina il mio capetto insolitamente sereno, quasi gentile: non mi muove rimproveri, non mi sollecita ad ogni istante; insomma si comporta in modo, da risultarmi quasi simpatico. Sindrome di Stoccolma? Ad un tratto Luigi mi dice: "Di’, ‘Cravattina’ perchè fai l’operaio?". Rispondo con un altra domanda: "E tu, perché mi chiami ‘Cravattina’?". Lui non si scompone: "Perchè porti sempre la cravatta, gli operai non la portano, ma tu cosa facevi prima di fare l’operaio?". Riesco a capire finalmente, perché sono oggetto di tanta curiosità, in tutto lo stabilimento: "Ero impiegato.". Luigi scoppia a ridere: "Allora hai fatto un salto indietro!". Trascorrono i tre mesi di prova, manca mezz’ora alla sirena d’uscita, mi raggiunge un’impiegata dell’amministrazione con una busta: "Qui c’è dentro la sua paga e la lettera di licenziamento, con domani deve restare a casa.". Così finiscono i pesci fuor d’acqua!

A casa niente tragedie, mia sorella era addirittura felice: toccava a le
i lavare le mie tute unte e bisunte, quando le riportavo dal lavoro.

 

 

ASSUNTO ! ANZI, NO !

Gli annunci economici del "Corriere della Sera", erano un po’ l’ufficio di collocamento della famiglia. Io tenevo a portata di mano una minuta, col mio curriculum, e ad ogni annuncio di mio interesse, scrivevo e spedivo immediatamente la mia offerta di lavoro. Mi ricordo di averne inviate oltre novanta in quel periodo, ma di risposte ne ricevetti poche: per lo più sapevano d’imbroglio, giacché chiedevano preliminari versamenti di cauzioni et similia. Una sola risposta mi dette speranza: quella della "Società ora elettrica", che m’invitava ad un colloquio per la eventuale assunzione. Indossai l’abito buono e andai. Fui accolto in uno studio così così.

Un signore cortese, mi diede la mano e m’invitò ad accomodarmi: "Noi ci occupiamo della installazione di orologi elettrici stradali, e di inserire negli stessi targhe pubblicitarie di ditte ed enti che ne abbiano interesse. Ciò, contro il versamento di una quota periodica di noleggio. In seguito al nostro annuncio, ho qui avanti a me un certo numero di offerte. Come vede la sua lettera, è sopra le altre, in quanto ci ha molto bene impressionati. Il lavoro è molto semplice: si tratta di visitare i nostri clienti, per l’incasso delle rate trimestrali. Questo tipo di impiego la interessa?". Domanda, per quanto mi riguarda, superflua: "Sì, certo, mi sento disposto.". Il signore cortese, ha un attimo di titubanza: "Ma... vede, quando lei è entrato... voglio dire che vedendola di persona e sentendola parlare, mi rendo conto che questo incarico non sia adatto a lei... Lei merita un lavoro più intelligente.. come dire?... più di concetto e non quello di semplice esattore... mi spiego?". No, non si spiegava e replico: "Sono a spasso: a me adesso interessa un’occupazione dignitosa, che mi procuri un guadagno, e quella dell’esattore non mi sembra disonorevole.". Nulla da fare quello decreta: "Dia retta a me, questo non è un posto per lei, insista a cercare, vedrà che troverà di meglio. Arrivederla.". Mi tende la destra: sono schifato, e so quello che ci farei sopra quella mano, ma gliela stringo.

 

 

ALTRO IMPIEGO

Nel nostro edificio abitava uno squadrista, molto riservato, che abitualmente non portava la camicia nera. Con Papà si salutavano e talvolta, incontrandosi per le scale, scambiavano anche qualche parola, ma, per reciproco riguardo, non di politica. Quel signore, di cui non posso dire il nome, era proprietario, in società con un ebreo; di un laboratorio di manichini, nel centro di Milano. Concludendo: fui assunto come apprendista impiegato, nell’amministrazione di quella fabbrica.

L’ufficio era piccolo, tanto che lavoravo quasi a contatto di gomito con le mie due nuove colleghe: una contabile e una dattilografa. Dirigente era il socio ebreo, di nome Mario, del mio coinquilino, il quale, per altro, mai vidi apparire in azienda. Il signor Mario era un uomo un po’ dispotico, secco nel dare ordini, e senza mai, in volto, l’ombra di un sorriso.

Già pratico di mansioni amministrative: battere lettere e fatture a macchina, spedizione di corrispondenza, archiviazione pratiche evase, ecc.; non avevo ormai nulla da imparare come "apprendista": qualifica di assunzione molto appetita dall’imprenditoria, per pagare inizialmente 150 lire al mese, il rendimento che ad un impiegato finito veniva retribuito con 600. A differenza del laborioso tipo di fatturazione che svolgevo alla ditta Pozzi, qui c’era almeno il vantaggio che la merce aveva prezzi alti e cifre tonde, e le note di addebito comportavano pochi addendi, per cui non si verificavano facilmente errori di conteggio.

La prima volta che scesi nel seminterrato per stendere un inventario dei manichini, restai fortemente impressionato dalla scena: ero solo, tra un centinaio di uomini e donne, nudi o vestiti, che mi fissavano immobili e attoniti. Quasi temevo che tanta folla, ad un tratto, si animasse e mi aggredisse, come una muta di bellissimi zombie. Riavutomi dallo sgomento e, rassicuratomi che non si muovevano, incominciai a guardarli meglio, e notai che quelli nudi erano asessuati. Insomma: non c’era niente da imparare. Le donne erano meravigliose. Contrariamente alle tendenze del maschio mediterraneo io, la prima cosa che osservavo nella donna, era il viso. Il viso è la mostra dell’animo. Animo, che il Zanichelli definisce: "principio della personalità, delle facoltà intellettive, della volontà, e sede degli affetti". Lì erano tutte fascinose e angeliche, e mi rendevano problematica la scelta. Me la imposi, e decisi per una ammaliante manichina: capelli biondi acconciati alla greca, bocca sorridente, voluttuosa, e grandi occhi, azzurri ed espressivi. Osai quello che, sino allora, mai avevo osato con una creatura vivente: la fissai negli occhi. Ella, impudente, sostenne il mio sguardo: "Mi resisti?". Vinse lei. Fa niente: "TI voglio lo stesso". Invidiai Pigmalione, re di Cipro, che Afrodite esaudì, trasformando in carne e ossa, la statua di marmo, di cui egli si era invaghito.

Mi risvegliai da questa turba adolescenziale. Caspita! Erano passati dieci minuti e non avevo ancora elencato niente! Iniziai l’opera febbrilmente e, in breve, riuscii a stendere una ventina di righe. Giusto in tempo; perché mi raggiunse il signor Mario il quale, mostrando di interessarsi ad uno dei tanti fantocci, veniva in realtà a spiarmi. Furbo, fingendo poi di avermi individuato in quel momento, tra tanta gente, mi chiese: "Qualche difficoltà?", che tradotto significava: "Quanto ci metti!". Parai il colpo: "All’inizio sì, come in tutte le cose, ma ora ho ingranato.".

Una mattina arrivarono in ufficio due uomini corpulenti, vestiti pacchianamente, come guitti in cerca d’ingaggio. Parlando un italiano dal forte accento romanesco, con spocchia irritante chiesero del titolare. Quando arrivò, imbastirono al signor Mario, un certo discorso: "Noi siamo di Cinecittà, e stiamo girando un kolossal, dal titolo "Grandi Magazzini". Magnifico! Figuratevi che è diretto dal grande regista Mario Camerini, e interpretato da Vittorio De Sica e da Assia Noris: due stars di prima grandezza. Siamo qui perché, vista la rinomanza della vostra produzione, vogliamo proporvi un grosso affare.". Mario, che aveva già capito dove quelli andavano a parare, li apostrofò con la sua abituale rudezza: "Sentite, io sto lavorando, e non ho tempo da perdere: dunque... venite al dunque!". Quelli, che parlavano a turno, come il gatto e la volpe di Pinocchio, ripresero con immutata sicumera: "Il dunque è presto detto: per le scene del nostro film, dobbiamo allestire un reparto abbigliamento, con una ventina di manichini: voi ci spedite, porto franco a Roma Cinecittà, questo materiale, e noi, dopo le riprese ve lo rispediremo in porto assegnato. In sostanza, voi sostenendo soltanto le spese di spedizione dei pupazzi, avrete in compenso un notevolissimo riscontro pubblicitario per la vostra Azienda, la quale, anzitutto sarà elencata nelle didascalie iniziali della pellicola, e poi; e questo è importantissimo; nella sequenza clou, dove in scena saranno esposti i vostri manichini, la macchina da presa sosterà per ben trenta secondi sulla base degli stessi, dove avrete stampata, in modo evidente, la vostra dicitura. Che ne dite?". Mario, senza scomporsi li liquidò: "Sentite: avete un’idea voi, di quanto costa l’imballaggio per la spedizione dei nostri prodotti? E vi rendete conto che dopo due viaggi e gli inevitabili maltrattamenti dei macchinisti di scena, al ritorno i nostri manichini sarebbero tutti da riparare e ridipingere? E sapete quanto questo ci verrebbe a costare, in mano d’opera specializzata? Niente da fare!". Quelli ci riprovarono: "Rifiutando la nostra vantaggiosa offerta, voi ci costringete a rivolgerci alla concorrenza!". E riscossero un cinico: "Benone! Tutti i danni che andrete a fare alla concorrenza, avvantaggeranno i nostri affari. Arrivederci!".

Due anni dopo, il film "Grandi Magazzini", arrivò ai cinema di periferia, e quindi alla portata delle mie tasche. Naturalmente la curiosità mi spinse a controllare se i due pomposi trovarobe di Cinecittà, avevano detto la verità. Era vero: una ditta concorrente risultava nella rapidissima elencazione finale del film. Quanto ai promessi trenta secondi di sosta della macchina da presa, sulla dicitura dell’azienda, lasciamo perdere. Vi fu una panoramica di cinque secondi dei manichini, e il nominativo dell’azienda concorrente riuscii a leggerlo perché, oltre ad averlo già in mente, possedevo dieci decimi di visus per ogni occhio.

Durante il "Ventennio fascista", il portare o meno la camicia nera, in qualsiasi situazione, in qualsiasi ambiente, e in qualsiasi ora del giorno, nel nostro Paese non creava alcuna emozione, e tanto meno critica. Così credevo io; almeno fino al giorno in cui andai al lavoro in camicia nera. Notai invece che in ditta, il mio abbigliamento lasciasse indifferenti soltanto i manichini. Colleghe e capo, mi sembrarono un po’ strani, quando trattavano con me. Questo quando vi ripensai dopo, perché al momento, a dissipare ogni mia perplessità, era il mio convincimento che, se un socio dell’azienda era squadrista; i dipendenti fuori regola, sarebbero stati semmai, quelli che la camicia nera non la indossavano.

La verità mi si aprì quando, per la venuta a Milano di Mussolini, fu proclamata la festa cittadina delle forze fasciste; i cui militanti erano autorizzati; con tanto di ordinanza del Podestà; ad assentarsi dal lavoro, per presenziare in Piazza del Duomo ad una grande manifestazione, in onore del Duce. Quando comunicai al signor Mario, che avrei dovuto astenermi dal lavoro, per compiere il mio dovere di camicia nera, mi meravigliai ch’egli, così critico in tutto, annuisse senza commenti. Di questo, una spiegazione, a posteriori, ci fu: alla fine del mese fui licenziato per riduzione di personale. Per cui, io fui l’unico fascista della storia, maltrattato, si fa per dire, da un ebreo.

 

 

VITTIMA DI UN FURFANTE

Papà, mi raccomandò presso una sua buona conoscenza dei Magazzini Generali, il commendator Maggi, il quale mi fece assumere all’ INT (Istituto Nazionale Trasporti). Così mi ritrovai allo Scalo Farini, nel medesimo ufficio dove già lavorava mio fratello. Comunque avendo Livio delle incombenze esterne, ci si vedeva soltanto casualmente.

Ero seppellito, con altri sei impiegati, in un abituro ricavato all’interno di un alto magazzino, uno dei tanti dello scalo, nel quale, scordandoci il sole, si lavorava alla luce diuturna di lampadine ad incandescenza che, senza riparo, infastidivano gli occhi. L’ufficio era saturo di fumo di sigarette e di toscani, tanto che l’ambiente, tutto sommato, dava l’idea di una bisca dei bassifondi di Chicago. Si trascorreva il tempo, da mattina a sera, a compilare a mano, con matita copiativa, dei borderò, rilevando i dati da mucchi di bollette e note. A cosa servissero i borderò, non lo seppi mai, salvo che, nel loro insieme, comportavano un cospicuo movimento di denaro. Avevamo per capostanza, un essere di mezza età, viscido e abbastanza insignificante, che non alzava mai la voce, ma che ispirava diffidenza. Egli era anche il responsabile della contabilità e unico detentore delle chiavi della cassaforte.

Per soddisfare qualche esigenza fisiologica, si dovevano percorrere parecchie decine di metri, al di fuori del nostro tugurio, sino al magazzino vicino, che disponeva di un sempre indecente servizio. Del resto da quelle parti non c’era ombra di donna, sulla quale poter contare per un po’ di pulizia: tutti facchini, autisti, fattorini, impiegati.

Il dolo era di casa. Nei magazzini ristagnava un odore di vino: se ne vedevano larghe chiazze dappertutto, sembrava strano che le numerose botti depositate avessero delle perdite.

La verità era, che qualche anonimo praticava un piccolo foro ad una certa altezza di una botte, per cui, per la pressione interna, il contenuto ne fuoriusciva zampillando. Dopo aver servito, il buco veniva tappato con un piolo. La fonte rimaneva così a disposizione anche di altri, i quali, non avendo avuto l’iniziativa, non si peritavano di mungere vino, anche in presenza di terzi.

In autunno giungevano in deposito, molti sacchi di iuta contenenti nocciole sgusciate. Qualcuno, con un dito, penetrava facilmente nel tessuto iuta e l’allargava: le nocciole poi, con qualche calcetto alla base del sacco, scorrevano in giusta misura per riempire il cavo di una mano.

Verso Natale, arrivavano casse e gabbie di giocattoli e di articoli casalinghi. Qualche collo, per voluta sbadataggine, cadeva a terra durante lo scarico dall’autocarro: l’imballaggio si sfasciava e l’involucro rotto, col suo contenuto, veniva depositato a parte nel magazzino, per la constatazione del danno e il risarcimento assicurativo. In breve, del tutto, rimaneva soltanto la tara.

Nella tana in cui noi si lavorava, non vidi mai il nostro capoufficio; non si degnava, perché il suo studio era in locali luminosi e più confortevoli, siti all’inizio della lunga serie dei grandi magazzini. A noi, i suoi ordini ci pervenivano per telefono o tramite qualche fattorino mandato in bicicletta. Io, questo dirigente, lo vidi soltanto una volta, dietro la sua scrivania il giorno della mia assunzione.

All’ultimo giorno dei miei tre mesi di prova all’INT, fui licenziato. Sinceramente non me l’ aspettavo, perché in quel periodo, in ufficio, mai ricevetti da chicchessia sollecitazioni o rimproveri sul mio comportamento. Mio padre, dopo avermi duramente rimproverato e invano strizzato, per sapere cosa mai avessi combinato per meritarmi il licenziamento, volle andare a chiedere chiarimenti al commendatore Maggi. Risposta: "Scarso rendimento".

Due mesi dopo, mio fratello, informò Papà che il capostanza, del quale ero alle dipendenze, aveva avuto il licenziamento in tronco, e la denuncia per appropriazione indebita. Ritardando la consegna, alla Direzione, delle copie dei borderò, questo losco individuo aveva potuto coprire il vuoto che effettuava, pro domo sua, nella cassa dell’Ente. Prima di essere scoperto, aveva sostenuto ai suoi superiori, che il ritardo negli incassi, era dovuto allo scarso rendimento del sottoscritto: apprendista appena assunto. E nessuno dubitò di questa incredibile fandonia.

 

giomarkin@virgilio.it

 

 

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