Vecchio Giorgio 13

Le sue poesie 1 - 2 - Poesie per i bambini - Racconti di vita 1 -2-3-4-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15    

  Racconti della serie:  "Helvetia"    Continua...

 

PREMESSA PRIMA ACCOGLIENZA PRIMO LAGER: FRAUBRUNNEN.  LAGER: BÜREN AARE.  LA COMUNITA’ DEI RIFUGIATI.  LAGER: ALLENLÜFTEN. 
" REGNEN, DONNER VETTER ! " LE VESPE  IL PULEDRO RIBELLE I RIFUGIATI DI ALLENLÜFTEN.  LA FILODRAMMATICA  ALTRI IMPREVISTI DI SCENA 

 

PREMESSA

Prosegue qui la storia raccontata nella Serie: "Servizio Militare".


E’ questa la giusta sede, per ringraziare la Confederazione Elvetica, di avermi ospitato per due anni, dal 1943 al 1945; come rifugiato militare matricola N° 3250; periodo in cui l’esistenza di un italiano, nel proprio Paese, caduto sotto dominazione hitleriana, valeva meno di un soldo bucato.

Detto quanto dovuto, userò la medesima franchezza; nel descrivere la mia vita da rifugiato militare; che uno svizzero ebbe con me quando; invitatomi a colazione in casa sua; dopo avermi offerto, tè, pane, burro e marmellata; osservò che noi rifugiati, eravamo un peso per l’economia elvetica.


Non potendogli restituire, come se lo sarebbe meritato, quello che il mio stomaco già stava elaborando; lo resi edotto su ciò che non sapeva: la Svizzera; prima di aprire le frontiere ai soldati italiani in fuga; aveva chiesto garanzie di solvenza agli Stati Uniti. Era ovvio: altrimenti non sarebbe stata la Svizzera. Scontato che una rondine non fa primavera e uno svizzero non fa la Svizzera; la mia risposta all’ospite elvetico, in verità pesante, non lo era tanto, quanto la sua osservazione da maleducato.

Ciò che più mi indispettì però; fu la critica che poi mi rivolsero i tre compagni d’internamento, con me accolti in quella casa: " Non dovevi rispondere così: ci aveva offerta la colazione! ". E bravi italiani: non vi vendete, forse, per un piatto di lenticchie, ma per pane, burro e marmellata; sì! E questa, temo che, nel nostro Bel Paese, sia proprio la regola, e non l’eccezione.

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N.B. - I fatti descritti in questi racconti, tratti da mie esperienze personali, sono oggettivamente accaduti e le persone citate veramente esistite, seppure i nomi riferiti, non corrispondano sempre a quelli reali. Anche nomi di località e di aziende, in qualche caso non sono quelli veri.

 

 

 

PRIMA ACCOGLIENZA

Ritornando allo chalet; dove ci era stato offerto del tè; ben presto, a gruppi, accompagnati da soldati svizzeri, scendemmo verso Chiasso, la cui vista dall’alto; a noi abituati all’oscuramento da tre anni di guerra; ci apparve fantasmagorica, con tutte quelle luci accese nelle case, e i filari di lampioni che illuminavano le strade.


In città, ci condussero, nel sottopassaggio delle ferrovie, dove sostammo sino a mattino inoltrato. Andammo poi in un ospedale militare o simile, nel quale, dopo aver declinate le nostre generalità, fummo forniti di una gruccia per gli abiti, invitati a spogliarci completamente e a disporci in fila indiana, per la visita sanitaria.


L’Ufficiale medico, mi scrutò attentamente, poi mi tracciò con matita grassa un cerchio rosso sulla spalla, a causa del quale fui diviso da Antonio, che non era stato marchiato. Da quel momento non vidi più l’ "imbranato", e scoprii di poter, sopravvivere, senza traumi, allo straziante dolore.


Seguendo la mia fila, come un vitello al mattatoio, fui assalito da un infermiere, munito di una macchinetta tosatrice a mano, il quale mi depilò dappertutto, con tanta cura, che in seguito, per alcuni giorni, soffrii per brucianti abrasioni alle ascelle. Prima della doccia, un altro specialista, con una canna, mi spruzzò del medicamento. Intanto, la gruccia con i miei indumenti era stata stipata, con tante altre, in un armadio autoclave e trattata ad alta temperatura.


Non avendo in precedenza, mai sofferto di dermatiti, o pruriti, o altri fastidiosi disturbi della pelle, mi chiedevo cosa mai avesse diagnosticato il prudente dottore, che mi aveva appena visitato. Conclusi tra me: " Non so se la Svizzera mi abbia salvato da pulci o pidocchi, ma dall’ imbranato e dai tedeschi, sicuramente si.".


Terminata la trafila e rivestiti; ci accompagnarono nel prato del vicino stadio sportivo dove; rifocillati con un panino e tè a volontà; fummo lasciati liberi all’interno del recinto. Qui, mi meravigliai della grande curiosità che destavamo nelle cittadine ticinesi, le quali ci venivano ad osservare da vicino, al di là dalla cancellata del parterre. Nella memoria, mi è rimasta impressa la frase illuminante, pronunciata da una ragazza: "Ma come sono giovani, mamma, questi soldati! ". Contenta?


Quell’interminabile giornata, si concluse, sul far di sera, con un secondo tramezzino e altrettanto tè. Indi, chiamati per nome, fummo portati nuovamente nel sottopassaggio ferroviario, che già ci aveva ospitati, si fa per dire, la notte appena scorsa.


Ero ancora vestito col giubbetto a scacchi bianchi e neri e i pantaloni, che la mattina del giorno precedente avevo indossati a casa. Non avevo altro di più pesante da mettere: non ci avevo pensato prima ed ora in quel tunnel; spirava un’ arietta che, con l’avanzare della notte, si faceva sempre più fredda.


Mi ero seduto, come tanti altri sul ciglio di un marciapiede, rigirandomi di tanto in tanto; per offrire all’algido venticello, la parte al momento meno indisponibile del mio corpo. Le ore della tarda sera e della notte, passavano lente: nessuno che riferisse quando mai ci avrebbero rimossi da quell’incomodo stato.


Ad ora antelucana, là in fondo, ci fu un tramestio. Tutti ci alzammo in piedi e, vedendo una colonna che si stava formando, ci disponemmo lestamente a seguirla. Uscimmo dal tunnel, salita una china entrammo nella vicina stazione di Chiasso, a quell’ ora deserta. Ci attendeva un treno, un po’ démodé, ma riservato; che occupammo e che in breve riscaldammo con i nostri corpi e fiati. Quando il convoglio si mosse, avevamo già dimenticati gli spifferi del sottopassaggio e, nel gradevole tepore degli scompartimenti, ci appisolammo.

 




PRIMO LAGER: FRAUBRUNNEN.


Il viaggio fu lunghissimo. Il treno ci scaricò di primo mattino a Fraubrunnen, (tr.: "Donna della fontana"), una località nei pressi di Berna, dove fummo suddivisi in gruppi di circa cinquanta, e avviati per strade diverse in direzione di vari luoghi di alloggio.


Il paesaggio era fiabesco: un terreno ondeggiante, a prato, solcato da stradine pulitissime, con steccati bassi e radi, che delimitavano le proprietà. Era tutto un meleto. I rami sconfinavano dalle aree private sui vicoli; sicché i frutti pendevano, tentatori, ad altezza d’uomo, e bisognava scansarli per non battervi la testa. Le abitazioni erano per lo più, chalet unifamiliari.


Fummo ospitati in un alberghetto, che da quelle parti si denomina "Gasthof", adattato per accoglierci: il salone del primo piano, trasformato in dormitorio, con lo spargimento di paglia lungo le pareti. L’altra sala, a piano terra, cambiata in refettorio, dopo la sostituzione di tavoli e sedie, con tavoloni e panche. Le guardie svizzere, tre o quattro, dormivano nelle camere, e un’altra stanza ospitava il bureau del distaccamento.


A ciascuno di noi furono assegnate due coperte dell’Armée, con tanto di croce elvetica, in campo rosso; molto spelacchiate per l’uso e, per i meno fortunati, con qualche buchetto o strappo.


L’Armée, settimanalmente ci versava qualche franco, giusto per poterci comperare un pacchetto di sigarette, o il sapone, o il dentifricio, o le lame da barba ma, non tutto in una sola volta.


Nel giardino della locanda, c’era una vasca di cemento, con un paio di rubinetti, per le nostre pulizie. L’impianto aveva del provvisorio, e non era da escludersi, che fosse stato allestito di recente, in vista del nostro arrivo. Al riparo di un’alta siepe; era stata scavata una fossa biologica, con un paio di assi poste di traverso, per servirsene.


All’interno del recinto, esistevano alcuni meli, dai rami dei quali pendeva una grande quantità di grosse, mature e profumate mele delizia, che noi non mancammo di cogliere alla spicciolata. In verità, qui, nessuno ci aveva proibito di prenderle.


La distesa dei meleti era punteggiata, qua e là, da isolati alberi di ciliege, e di prugne, per evidente uso famigliare.


Non è che noi italiani, siamo campioni di rispetto, in fatto di proprietà altrui; e quindi, quelle mele, che ai limiti delle strade sconfinavano nella pubblica via, e che erano sussistite sino al nostro arrivo, furono rapidamente falcidiate nei giorni della nostra presenza.


Poiché l’appetito viene mangiando, un paio di nostri incoscienti compagni, furono visti da altri, all’interno di una proprietà privata, arrampicati su un ciliegio, a far man bassa di frutti, mentre, a cinquanta passi, appoggiati alla soglia della loro casa, i padroni, scandalizzati, dissentivano con la testa, esclamando: "Ne-nei! Ne-nei!". Qualcuno di noi, commentò: "Ma guarda questi svizzeri! Invece di prendere a legnate quei due lestofanti, si limitano a protestare!". Altri, me compreso, si sentivano mortificati, dalla figura d’inciviltà, che per due tangheri, faceva tutta la nostra comunità.


Dopo il reiterarsi di episodi come questo, non è da meravigliarsi che le Autorità svizzere abbiano, in breve, deciso il nostro trasferimento ad altro campo.

 

 

LAGER: BÜREN AARE.


Accompagnati dall’immancabile scorta militare, giungemmo, dopo un viaggio in treno relativamente breve, a Büren Aare: un piccolo centro nel Cantone Solothurn, a un tiro di schioppo dalla Germania.


Con una camminata, di circa un chilometro, giungemmo ad un vastissimo campo di concentramento: doppio reticolato di filo spinato, attorno a un terreno parzialmente coltivato a rape. Alcune baracche, all’interno del campo, ospitavano rifugiati francesi; altre, presso l’entrata erano occupate dal corpo di guardia dei soldati svizzeri e dalle cucine. Al di fuori di queste, si vedevano tavoloni e panche di legno, per la consumazione dei pasti. Più lontano: una casupola: quella dell’ infermeria.


Noi italiani, fummo sistemati all’interno di una grande costruzione di legno, al centro del campo. Si trattava di un ex teatro, e non ci voleva molto a capirlo, data la presenza di un palcoscenico, con tanto di quinte. Il tutto, logoro e in disuso. Nel retropalco, unica, aveva resistito alle sottrazioni, una comoda col suo vaso in ferro stagnato e ormai ossidato dal tempo. Nella platea, sgombra di poltrone, era stato steso a terra, contro le tre pareti, uno spesso strato di paglia, ad uso di giaciglio. In mezzo allo stanzone, completava l’arredamento, una grande stufa a legna di terracotta.


Ci furono consegnate due coperte dell’Armée, in sostituzione di quelle che ci erano state ritirate a Fraubrunnen.


Eravamo a 445 metri sul livello del mare, e le notti erano abbastanza rigide. Le coperte, una sotto e una sopra, mentre dormivamo, non ci salvavano totalmente dal freddo; col risultato che, almeno io, mi dovevo alzare, ogni due ore circa, per lunghe minzioni fuori del dormitorio.


A proposito; per tutta la mia permanenza di rifugiato militare in Svizzera, ho fruito di un solo modello di gabinetto: una fossa biologica. Anche l’acqua per le pulizie, veniva erogata da rubinetti o fontanelle di fortuna, all’aperto.


I rapporti con i rifugiati francesi erano freddini: pochi parlavano con noi e quei pochi, giustamente rimproveravano all’Italia, la "pugnalata alla schiena", che Mussolini, con l’entrata in guerra il 10 Giugno 1940, aveva dato alla Francia, già messa in ginocchio dalle colonne corazzate di Hitler. Rispondevamo, che nessun italiano aveva approvata quell’azione maramaldesca, e che la nostra condizione di rifugiati militari in Svizzera, dimostrava che non volevamo combattere con i tedeschi. Chiarito questo, i francesi non disdegnarono qualche scambio commerciale con noi, vendendoci, oggetti di cui noi, appena arrivati eravamo sprovvisti: indumenti usati, bauletti di legno da loro costruiti, ed altre piccole cose, che assumono valore soltanto tra poveri.


L’entrata e l’uscita dal campo era libera, ma la distanza dal villaggio più vicino era tale da sconsigliare di andarvi senza un preciso motivo; come quello, per esempio, di acquistare sigarette o qualche genere di prima necessità.


Ogni tanto, arrivavano al campo dei generi di vestiario usati, ma puliti. Non ne conoscevamo la provenienza. Ognuno di noi cercava nel mucchio, qualcosa che fosse della propria misura. Per me, data la mia altezza, 182 centimetri, trovare un indumento che mi andasse bene era un problema. Una volta però ebbi fortuna: trovai una giacca grigia, di flanella, talmente grande che, quando l’indossai, il mio corpo vi ondeggiava come il batacchio dentro la campana. Prendere o lasciare: la tenni. Tra le scarpe, ne scovai un paio nere, lunghe e aguzze, del numero 45, io portavo il 43. Le soprannominai: "torpediniere". Tenni anche quelle.


Nei giorni festivi, al di fuori del recinto, veniva della gente a guardarci, ed a porci delle domande. Non si trattava soltanto di semplici curiosi: qualcuno offriva anche dolci e sigarette. Altri che avevano dei vestiti, nuovi o usati di cui disfarsi, chiedevano chi avesse quella misura.


Una domenica venne una signora, con le sue due ragazze. Parlava italiano e intavolammo una piacevole conversazione. Abitava a Grenchen, una cittadina del Cantone di Solothurn, in Wiesenstrasse, 45, si chiamava: Mirella Rombaldi Armellino, ed era di origine italiana. Ritornò la domenica successiva, e, al termine del nostro discorrere, m’invitò ad un tè, a casa sua. Accettai.


Non ricordo come giunsi a Grenchen, e come rintracciai la Wiesenstrasse, 45. Ma ci arrivai. Vissi un pomeriggio come in famiglia, e, dopo il tè con pasticcini, presa un po’ di confidenza, spiegai che dalla mia entrata in Svizzera, non avevo avute notizie da casa, perché prudentemente, mi ero astenuto da inviare lettere. Allora, la signora Rombaldi si offerse gentilmente, di fare da tramite, e giungemmo all’accordo che io avrei scritto in Italia, con uno pseudonimo femminile, dando l’indirizzo di casa Rombaldi Armellino; e ogni comunicazione che dall’Italia fosse giunta a me, la signora Mirella me l’avrebbe rinviata al Lager.


Il mio pseudonimo fu: "Bianca Borghensi", e come tale, grazie all’anima gentile della signora Mirella, da quel giorno, diedi ed ebbi, notizie da casa.

 

 

LA COMUNITA’ DEI RIFUGIATI.


La comunità dei rifugiati militari era di diversissima estrazione. Quando all’ accettazione, dichiarammo le nostre generalità, le autorità elvetiche, non le misero in discussione, riservandosi ovviamente successivi accertamenti. Per dirne una: a me, per esempio, alla richiesta del mio grado, risposi che ero un allievo sergente. Lo scrivano svizzero, per equivoco, segnò sulla scheda soltanto "Sergente"; così i primi soldi che l’Armée mi versò, furono in relazione a quel grado. Per la mia innata convinzione; che i nodi, prima o poi, vengono sempre al pettine; informai subito il Comando svizzero dell’errore, e la paga mi fu ridimensionata, senza nemmeno una trattenuta di conguaglio. Un premio per la correttezza?


Se non avessi segnalato il fatto, avrei goduto dell’immeritato trattamento, per i due anni della mia permanenza colà; salvo poi subire le conseguenze dell’atto disonesto, quando la Svizzera, prima di rilasciarmi chiese per me, come per tutti gli altri rifugiati, i dovuti riscontri alle Autorità italiane; ricostituitesi al Nord, dopo l’occupazione tedesca.


Nel luglio del 1945, in prossimità del nostro rimpatrio, molti di noi scomparvero dai campi d’internamento, preferendo alla resa dei conti, il rientro clandestino in Italia.


Questo per dire che tanti profittatori, declinando false generalità o ragioni patriottarde, condividevano con persone oneste, la condizione di rifugiato militare. Del resto era risaputo che non pochi evasi dalle patrie galere, nel marasma dell’8 Settembre, erano riparati in Svizzera.


Non mancavano poi, dei veri e propri imbroglioni che dichiaravano di essere perseguitati dai fascisti, per motivi politici. Che ci stavano a fare in Svizzera questi eroi? Perché, non si erano uniti alle brigate partigiane che operavano in Italia?


Per i rifugiati militari, L’Armée passava alle cucine le medesime razioni alimentari spettanti ai suoi soldati; ma i casi erano due: o i soldati svizzeri tenevano alla linea o, molto più probabilmente i cucinieri italiani, che confezionavano i nostri ranci, facevano sparire un po’ di roba. Fatto sta, che noi avevamo sempre fame.


Ben presto, a pagare le spese del nostro appetito, furono i francesi. I nostri fratelli latini, che erano addetti alla coltivazione degli orti, incominciarono infatti a lamentare furti di rape, e a sporgere denunce al Comando del campo.


Io le ho denominate rape, ma si trattava di cavoli-rapa; ortaggi sconosciuti in Italia, il cui frutto si sviluppa su appropriato fusto, al di sopra del terreno di coltura. Cinicamente dirò: molto più comodi da raccogliere.


Confesso che anch’io, quando la notte mi alzavo dal pagliaio, e uscivo a regolare il... livello urico, qualche rapa me la sono mangiata.


Qualcuno però, si organizzò alla grande. Acquistò al villaggio una bottiglia Sauce; un prodotto usato normalmente dagli svizzeri per condire le verdure; e, in mancanza di meglio, sottrasse alla comoda che stava in teatro il vaso metallico, il quale, una volta accuratamente lavato, servì egregiamente da insalatiera per le rape. Buon appetito! Ma io a quei banchetti, non volli mai partecipare.


Le continue sottrazioni di rape, e i reiterati reclami dei francesi, finirono per irritare il Comando, il quale provvide all’affissione nel campo di locandine, con cui diffidava i rifugiati dal ripetere i furti, informando altresì che le guardie avevano avuto ordine di sparare, senza preavviso, su chiunque fosse stato colto ad asportare ortaggi dalle coltivazioni. Altro che l’ "Alto là! Chi va là?" nostrano! Non era cosa da sottovalutare. L’Armée elvetica non è l’esercito di Franceschiello, ed era matematico che alle parole sarebbero seguiti i fatti. Però, per quanto si riferisce alle rape, queste continuarono a sparire, ed i soldati svizzeri non ebbero mai occasione di sparare. Gli Italiani!


Chi se la passava meglio tra i rifugiati, erano coloro che da civili avevano lavorato nei campi, o avevano svolte attività artigianali; come barbieri, calzolai, sarti, o simili; perché, a seconda dei mestieri; o tra gli svizzeri del luogo, o tra gli stessi rifugiati; la loro opera era sempre richiesta.


In due camerini dell’ex teatro che ci ospitava, avevano ricavato dei luoghi di lavoro: un rifugiato che aggiustava scarpe, e un altro che tagliava capelli. I due, raggranellando così un po’ di soldi, erano anche considerati i più ricchi tra di noi.


Ogni piccolo locale era divenuto, per altro un punto di ritrovo degli amici dell’ artigiano che vi operava, specialmente la sera, quando la massa già dormiva.


Anch’io, frequentavo i due stanzini, e specialmente quello del calzolaio; ma non assiduamente perché, data l’esiguità dello spazio disponibile, non era facile trovare un posto libero.


Lì dentro, i discorsi finivano frequentemente in politica e tutti i partecipanti millantavano meriti in proposito. Il calzolaio, un quarantenne, affermava di essere socialista convinto, e che pure lo erano stati suo padre e suo nonno. Uno dei presenti si dichiarava comunista, e assicurava di aspettare l’arrivo in Italia del Baffone, per sterminare tutti i fascisti. Altri, manifestavano diverse idee politiche. Le discussioni, avvenivano in un’atmosfera tranquilla, come si stesse parlando del sesso degli angeli. Sembrava che ciascuno, almeno in apparenza, rispettasse comunque l’opinione degli altri.

Una sera, infastidito dal sentire tante trombonate, chiesi la parola: "Amici, tra di voi, per caso, non c’è qualcuno che sia stato iscritto al Partito Nazionale Fascista? Noo? Allora eccolo qua!". Così facendo estrassi dal portafoglio la vecchia tessera, (anno 1939 - XVII E.F.) del PNF e, tenendola tra l’indice e il pollice, col braccio teso, la passai con una panoramica davanti agli occhi stralunati dei cinque o sei presenti. Fu l’atto temerario di un incosciente: avevo sfidato le brigate rosse (svizzere).


Per la mania di conservare documenti, quella tessera; l’ultima rilasciatami, prima della chiamata alle armi; era rimasta quattro anni nel mio portafoglio.


Seguì un silenzio siderale. Poi qualcuno parlò d’altro, e la questione sembrò lì finita.


Il mattino dopo, seduto nella mia cuccia di paglia, udii all’esterno un tumulto di voci, sempre più concitate. Si aprì violentemente la porta e due individui mi si pararono davanti intimandomi: "Ti vogliono fuori!". Mi affacciai all’uscio: vidi un assembramento di una quarantina di rifugiati vocianti; qualcuno gridava: "Fascista! fascista!". Ma nella massa non c’era tanta convinzione; era intuitivo che i più si chiedessero: "Che ci sta a fare un fascista qua con noi; se noi siamo qua, perché i fascisti comandano in Italia?".


Ad aizzare il gregge, erano il calzolaio socialista e il comunista, che la sera prima avevo inconsapevolmente "oltraggiato" mostrando loro la tessera del PNF.


Non è che ci fosse reale pericolo per la mia incolumità. Alle guardie svizzere non era sfuggita quella sarabanda, e sarebbero certamente intervenute se la situazione lo avesse richiesto.


Come mi vide sulla soglia, il calzolaio, seguito dal comunista, venne innanzi a me, e ordinò: "Dammi la tessera fascista!". Estrassi il documento e glielo porsi esclamando: "Se la volevi, potevi chiedermela anche ieri sera, senza scomodare oggi tutta questa gente.".


Il mio atto, inaspettato, provocò un attimo di silenziosa sorpresa; poi si scatenò una ridda delle streghe; con urla coribantiche di esultanza, mentre la tessera veniva data alle fiamme, tra gli orgasmi virtuali dei due compagni rossi. L’assembramento così si sgonfiò: lo spettacolo era finito.


La questione ebbe un’appendice. La sera, in camerata, davanti alla stufa di terracotta, un omiciattolo mai visto prima, completamente calvo e con atteggiamento dispotico, cominciò a lanciarmi accuse, tirando in ballo ancora la storia del fascista.


Urlava con tanta convinzione, per aizzare i presenti a darmi una lezione, da non udire che intanto io gli gridavo: "Ma guardati tappo! Hai la testa pelata, come Mussolini; la voce di Mussolini; il mento quadrato di Mussolini; le mani sui fianchi come Mussolini; e vuoi dare di fascista agli altri!". Lui non aveva inteso, e continuava a strillare e a dimenarsi; mentre i presenti, che avevano riscontrato una reale corrispondenza, tra la mia descrizione e il suo atteggiamento; finirono per sganasciarsi dalle risa. Quando il nanerottolo alla fine capì di essere divenuto lo zimbello della comunità, troncò la sua concione e scomparve nel nulla. Aveva anche lui cercato il suo momento di popolarità, ma gli era andata male. Mi dissero che, a Como, rubava ruote alle automobili.


 

 

LAGER: ALLENLÜFTEN.


Dopo circa quattro mesi di permanenza a Büren Aare, fui incluso in un contingente di rifugiati, e trasferito in ferrovia, nei pressi di Berna, a Gummenen; dove la frotta degli internati, fu suddivisa in piccoli gruppi, e questi distribuiti in vari paesi della zona: Laupen, Frauencappelen, Bümpliz, Allenlüften, Buttigen, Mühlenberg, e altri.



Io, fui destinato ad Allenlüften (come dire, in italiano: "Tutti i venti"), un rilievo che raggiungeva i 709 metri sul mare.


L’accoglienza fu quella di sempre. Alloggiati in un Gasthof: solita paglia, solita fontanella nel giardino, soliti tavoloni e panche, e solita fossa biologica.


Ad ogni nostro trasferimento, ci si trovava con nuovi compagni. Probabilmente le Autorità elvetiche, con queste frammentazioni, tendevano prevenire il formarsi di bande, o combriccole di malaffare. Lodevole l’intento, ma noi, che in mezzo a quelle comunità si viveva, notavamo come gli individui loschi, facessero presto a saldare nuove amicizie, con i loro pari.


Ad Allenlüften, un rifugiato si costruì con qualche asse; la legna non mancava; una sorta di branda, che completò con un materasso, confezionato con sacchi di iuta per patate, cuciti assieme, e imbottiti di paglia. L’idea fu apprezzata, e da alcuni imitata; mentre gli altri, sip rocurarono questi effetti letterecci, pagando qualche franco, a chi li sapeva fare. Così, riposammo meglio e il dormitorio restò più pulito.


I contadini del luogo, assumevano lavoranti, in tempo di raccolta delle messi. La paga era in genere di tre franchi al giorno, più i pasti, con impegno dalle otto del mattino, alle otto della sera.


Benché io avessi sempre svolto in Italia lavori d’ufficio; allettato dall’idea di disporre di qualche soldo, mi offrii, ad una masseria del luogo, a conduzione famigliare.


Il "Patron", così era chiamato, di nome Verner Weber, era uno zotico bonaccione, a cui però tutti ubbidivano, senza discutere. Con me aveva un rapporto particolare, direi di comprensione, in quanto l’avevo preliminarmente informato, che io, in mano, avevo sempre tenuta la penna e non il badile. La signora Weber, era la classica contadina e padrona di casa: sulla cinquantina, bruttina e deformata nel fisico, per essersi massacrata a portare pesi eccessivi per tutta la vita. Il resto della famiglia era costituito da cinque figli: Lorenz, di dodici anni, un ragazzo giudizioso; Franz, di otto anni, un discolo incontenibile ; e poi tre ragazze: due gemelle di sedici anni, Anna e Frida, e infine una piccolina, di sei anni: Annelise.


Alla fattoria collaborava saltuariamente un giovane di ventotto anni, già divorziato, anche lui di nome Verner e un po’ stravagante; ma intelligente e molto capace nel suo mestiere.


Il primo giorno di lavoro, alle otto, mi presentai alla fattoria e fui subito invitato a consumare con la famiglia la colazione: caffelatte, pane e rösti; questo costituito da patate lessate, fredde, tagliate a pezzi, e fatte poi saltare in padella, con strutto di maiale, fino ad ottenerne, in superficie, un’appetitosa e dorata crosticina. Ottimo: calorie e colesterolo a parte.


Il Patron, mi ordinò poi di caricare, su un carro agricolo, delle ceste e dei sacchi di iuta, mentre lui provvedeva ad attaccare il cavallo. Montati sul carro, andammo in un campo di patate, lontano qualche centinaio di metri. Weber staccò il giumento dal carro, lo collocò al traino di una macchina agricola, che era sul posto, e incominciò subito a sterrare patate. Fatti dieci metri, fermò il quadrupede, venne verso di me, e mi spiegò, nel suo pessimo francese, che avrei dovuto raccogliere le pommes in una delle ceste che avevamo portato e, a cesta piena, il contenuto avrebbe dovuto essere riversato in un sacco di iuta. Infine mi anticipò premuroso, che a mezzogiorno saremmo andati a pranzo e dopo, fino alla una, avremmo riposato.


Incominciai la raccolta dei tuberi. Alle dieci, ci raggiunse la signora Weber con un bidoncino di latta pieno di tè. Sostammo dieci minuti a sorbire la bevanda. Poi la signora si trattenne, anche lei, a raccogliere "kartoffeln", ma alle undici se ne andò, dovendo preparare il

pranzo. Verso mezzogiorno il Patron, avendo finito il suo lavoro, riattaccò il cavallo al carro sul quale dopo, assieme, caricammo i sacchi già riempiti di patate.


Quando arrivammo alla cascina, Annelise ci venne incontro gridando: "Essen! Essen!" e, a me, tradusse: "Georges! Essen: manciare!". Anche lei, nell’organizzazione familiare, aveva i suoi doveri: in quel momento assolveva all’incarico della mamma, di informare tutti che il pranzo era pronto. Ma su di lei gravavano altri impegni, come quello del mattino: prima di andare a scuola: col carretto tirato da un bel sanbernardo, doveva portare il latte appena munto, al vicino caseificio (Kaserei) della zona; e la sera, dopo i compiti di scuola, ripeteva il viaggio, col latte del vespro.


Per tutta la settimana, il pranzo e la cena, comportavano il medesimo menu: insalata di verdura, cruda o cotta, patate nature, pane e caffelatte: il tutto a sazietà.


La domenica nessuno nella fattoria lavorava, tranne il mungitore; ma sia io, sia l’aiutante Verner, eravamo comunque invitati ai due pasti. A pranzo era sempre servito dello speck arrostito e del formaggio Emmental, con patate bollite e insalata. A cena: pane burro, e marmellata, con té o caffelatte.


Quel giorno, terminato di pranzare attendevo, seduto su una panca, l’una del pomeriggio per riprendere il lavoro; quando il Patron, indicando i sacchi di patate rimasti sul carro, mi ordinò: "Georges! Decharger les sacs! ". (Tr.: Giorgio: scaricare i sacchi!)Puntando il dito sul mio orologio, gli risposi: "Monsieur, ce n’est pas ancore l’heure ". (Tr.: Signore, non è ancora l'ora) Lui replicò: "Ça, pas arbeit!". (Tr.: Questo non lavoro!). Pensai: "Cerca di non rubare sul peso!", ma gli risposi ridendo: "Pour moi, ça c’èst travail!". (Tr.:Per me questo è lavoro!). Lui pure si mise a ridere, e scaricò personalmente i sacchi.


Nel pomeriggio, riportato al campo di patate, ripresi la raccolta iniziata al mattino. Non abituato a questa fatica, incominciavo ad accusare qualche dolorino alla schiena. Fortunatamente, poco dopo, arrivarono, a collaborare, alcune donne: la moglie e le figlie del patron, e altre, amiche di famiglia; così, a sera, la raccolta fu completata, e i sacchi di kartoffeln, presero la strada della fattoria.


Quella notte non riuscii a dormire per i dolori alla schiena; la posizione meno infame era quella fetale. Il giorno dopo, fortunatamente, non c’erano patate da raccogliere. Andai, con le donne, a strappare erbe parassite in mezzo a campi di mais e, al calar del sole, mi ritrovai impolverato come un mugnaio e tagliuzzato dappertutto dalle foglie della graminacea.

 

 

" REGNEN, DONNER VETTER ! "


Nel susseguirsi dei giorni, passai in rassegna quasi tutti i lavori della campagna.


Una volta; occupato ad annaffiare con liquame l’orto; vidi un rapido addensarsi di nubi temporalesche all’orizzonte, e avvertii lo spirare di un vento freddo, foriero di sicura tempesta. Mentre acceleravo le operazioni, con la speranza di finire in tempo il lavoro, per correre al riparo, prima che dal cielo si scatenassero le cateratte; udii il Patron, urlare dalla fattoria: "Georges! Kommen! Kommen! Schnell!". Mi venne un brivido: la stessa intimazione che, tempo addietro, mi aveva rivolto, in cima all’erta, il soldato tedesco!


Arrivai di corsa alla fattoria, e vidi il Patron intento ad agganciare il cavallo al carro, su cui era stata collocata una cesta, coperta da un sacco. Weber, quando i primi goccioloni già cadevano, e il vento ululava intorno a noi, mi urlò: "Monter, monter!". (Tr.: Salire! Salire!) Lo guardai come per dirgli: "Sei matto? Non vedi che piove?". Ma lui, già con le redini in mano, sbraitò: "Kommen auf! Shnell! Donner vetter! ". (Tr.: Venire su! Presto!) Pensando che fosse un ultimatum;
con questi teutonici non sai mai come regolarti; saltai a bordo e il carro partì al gran galoppo, nel turbinio della tempesta, ormai scatenata in pieno.


Dopo circa un chilometro, ci fermammo in un campo erpicato, il Patron , trasse dal cesto due sacchi; che, a cappuccio, ci coprirono la testa; poi alcuni mazzi di piantine di cavolo; e due attrezzi per trapianto, a forma di pistola. Così, tra torrenti d’acqua, vento, fulmini e tuoni; bucammo centinaia di volte il terreno, per inserirvi, una ad una, le radici delle piantine, e fissarle premendo la terra con la mano.


Quando rientrammo alla cascina eravamo, come si dice, da torcere. La signora Weber, premurosamente mi porse un cambio per i miei indumenti fradici, e mi offrì del té caldo. Il Patron, non appena ebbe indossati, anche lui, abiti asciutti, venne sotto il portico, dove stavo sorbendo il tè, e, alzando un dito al cielo esclamò: "Georges, Regnen!" (Piovere!), scoppiando in una grande risata. Io gli risposi sogghignando: "Donner, vetter! Fiol d’un can!".


In seguito guardai sul dizionario: letteralmente donner voleva dire tuono, e wetter, tempo. Insomma: il tutto una brutta copia del nostro: "Tuoni e fulmini!".

 

 

 

 

LE VESPE


Il comportamento del patron qualche volta lasciava perplessi. Nel corso di lavori in un campo, egli mi ordinò di sradicare un arbusto che intralciava. Il piccone e il badile, non bastavano all’opera: era necessario aiutarsi anche con le mani. Io non osavo farlo, perché in basso verso le radici svolazzavano parecchie vespe. Vista la mia titubanza, Weber mi rassicurò: "Georges! Pas danger, pas danger: c’est bonnes!". (tr.: Nessun pericolo: sono buone). Non so perché gli diedi retta. Veramente pensai, che il Patron sapesse che quella specie di vespe fosse innocua, o che le vespe svizzere non pungessero, perché... neutrali: fatto sta che avanzai sicuro le mani nel nugolo ronzante e immediatamente avvertii, un terribile bruciore sotto al mento. Tre punture alle ghiandole linfatiche! Mi ritrassi imprecando. Weber, mi guardò con aria interrogativa, ma capendo che non era quello il momento per sollecitarmi a riprendere il lavoro; mi sostituì cretinamente, mettendo a sua volta le mani, dove io le avevo tolte. Rimediò anche lui alcune punture alla gola; mentre io, nonostante il dolore, ghignavo sadicamente. Ritornammo alla fattoria, con vistose tumefazioni al collo; tanto da assomigliare a due gioppini bergamaschi. Naturalmente destammo l’ilarità di tutta la famiglia, e anche noi, nonostante i dolori, ci sforzammo a ridere, per limitare lo spettacolo.


A dispetto delle sue stravaganze, il Patron, sapeva il suo mestiere: quando si raccoglievano gli ortaggi, stupivo per la grossezza e l’aspetto dei prodotti: una meraviglia!

Al martedì, le donne si occupavano di mondare accuratamente le verdure appena raccolte, che dopo venivano lavate con cura in una grande vasca di cemento, indi poste ben ordinate in cassette di legno, e queste coperte con sacchi di iuta bagnati. All’indomani, di buonora, le cassette si stipavano sul carro, e Weber partiva per il mercato di Berna. La sera, quando il patron rientrava, aveva un piccolo regalo per ogni membro della famiglia. A me, porgeva regolarmente un pacchetto di "Caporal", le quali, dopo tre boccate, mi facevano fischiare i polmoni. A tanti, però, piacevano.


Come già dissi, di tutti i figli dei Weber, Franz era il più monello, anzi dovrei dire l’unico monello, perché gli altri si comportavano molto civilmente. A Franz, i genitori non erano riusciti ad affidare alcun compito nell’ambito del lavoro di fattoria. Non studiava, era offensivo con tutti e scatenato. Un giorno, per eccesso di vivacità, finì dentro la cisterna dei liquami, e per poco non vi annegò. La sua ripulitura, gastrica ed esterna, restò negli annali della famiglia, la quale per altro col tempo, e una certa assuefazione, finì per ignorare di fatto le intemperanze di questo discolo.


A me Franz, sin dai primi giorni aveva regalato l’epiteto di "dummer hund!" (stupido cane!), e salvo suo fratello Lorenz, che per questo lo redarguiva, gli altri di casa, Patron compreso, si limitavano stoltamente a ridere.


Per correttezza non reagivo all’insulto, ma il ragazzino, fraintendendo la mia pazienza, si avvicinava sempre più a me nel ripetere la sua invettiva, arrivando a tendere il braccio, col pugno chiuso, sotto il mio naso. Quando la misura fu colma, persi il controllo e, presolo per le caviglie, lo immersi a testa in giù fino alle spalle, nella vasca della verdura.


Rimessolo in piedi, fui meravigliato, dalla inaspettata reazione dei suoi famigliari, i quali scoppiarono in una grande risata e gli dissero in tedesco qualcosa come: "Ben ti sta!", mentre lui, istericamente alterato, si allontanava ripetendo: "Dummer hund! Dummer hund!".


Nei giorni successivi, però, dimenticò il termine.




IL PULEDRO RIBELLE


Di stupidaggini, nella vita, se ne fanno fino all’ultimo giorno: checché ne dica, chi si crede perfetto. Ciò che si può mettere in atto, per tentare di migliorarsi, è il non ripetere i medesimi errori.

In una delle tre stalle, che a volte rigovernavo, vi erano due cavalli: Katia, una femmina da tiro e Fritz, un bel puledro morello, già formato e quasi adulto che, per il momento, viveva beatamente la sua adolescenza, libero di giorno di correre in un recinto. La stalla era relativamente bassa, tanto che la testa di Fritz, arrivava a mezzo metro, dalle travi di sostegno del piano superiore.


In questo incontro ravvicinato, avevo preso confidenza con i due quadrupedi, quando ne riempivo le mangiatoie, o sostituivo la paglia delle lettiere. Erano animali mansueti, che si lasciavano tranquillamente accarezzare: non avevano tendenza a mordere e nemmeno a scalciare.


Cosa mi saltò in mente quella volta non so. Fatto sta che, nella stalla, con un balzo montai in groppa al puledro, il quale in primis non sembrò reagire, tanto che l’operazione mi riuscì completa. L’intolleranza equina però, non tardò a manifestarsi. Prima che arrivassi ad ergermi in groppa, mi ritrovai sbalzato a terra, a gambe levate tra i garretti dei due cavalli che, fortuna volle, non fossero vendicativi. Mi rialzai incolume e sicuramente domato: io.


Col novembre, venne l’ultimo giorno del lavoro stagionale. Il Patron, nel versarmi l’ultima paga, accompagnata da un pacchetto di "Caporal", promise che mi avrebbe richiamato a primavera. Evidentemente avevo superato l’apprendistato contadino, e mi sentii onorato dall’implicito riconoscimento.



 

 

I RIFUGIATI DI ALLENLÜFTEN.


Svincolato, dal lavoro nei campi, ebbi modo di vivere più attentamente, nella comunità di cui facevo parte. Eravamo una trentina, sotto la sorveglianza di alcuni soldati svizzeri, la presenza dei quali non ci pesava. Avevamo libertà di movimenti: potevamo passeggiare indisturbati nei dintorni e raggiungere anche altri campi di rifugiati della zona. Ufficialmente ci era vietato di andare a Berna, ma talvolta ci si recava, per acquisti o per visitare la città; le nostre guardie, anche se lo venivano a sapere, non prendevano provvedimenti.


Eravamo anche attentamente seguiti, da una associazione di volontariato, che faceva capo al Pastore anglicano di Laupen, i compiti del quale, ci dicevano, non erano soltanto religiosi, ma anche di pubblica amministrazione. La moglie del Pastore capeggiava, fra l’altro, un nucleo di volontarie, le quali provvedevano, gratuitamente, a lavare e rammendare i nostri indumenti; che consegnavamo in un sacchetti di tela, contraddistinti dai nostri cognomi.


Nel campo, avevamo anche organizzato una specie di scuola: chi aveva competenza in una certa materia, teneva, alla nostra comunità, una lezione in merito. Il Pastore, ci inviò un suo discepolo, ad impartirci nozioni di lingua tedesca; un nostro compagno, geometra, ci intrattenne sulle costruzioni edili; io stesso, interessai i compagni su argomenti di ripresa, sviluppo e stampa fotografica.


Fra noi, c’era un ex paracadutista della "Folgore", un bel giovane, robusto, sportivo, sempre allegro, e molto intelligente. Si chiamava Pellizzoni, e non rinnegava il suo passato di iscritto al Partito Fascista. Naturalmente, in contrapposizione; guarda là; saltò fuori un comunista, un ex muratore, che aveva lavorato in Francia: grande, grosso, e con una certa somiglianza all’attore Victor Mac Laglen, che abbiamo visto, con Jhon Wayne, nel film "Un uomo tranquillo".


Questo marcantonio, da bravo militante rosso, aveva studiata la nostra compagnia, selezionando quelli che col Pellizzoni parlavano amichevolmente, come il sottoscritto, per annotarli sulla sua "Lista nera": un quadernetto che ostentava in tutte le occasioni, che gli consentivano di manifestare le sue idee politiche. Come ogni invasato che si rispetti, soleva ripetere, senza mai rivolgersi personalmente a qualcuno: "Quando rientriamo in Italia, facciamo fuori tutti i fascisti, li ammazzeremo tutti, perché non rinasce la razza. Non potranno scappare, perché io li ho segnati su questo notis!". Così parlando si guardava attorno e, passando in rassegna tutti i presenti nella camerata, si fermava qualche attimo, quando i suoi occhi inquadravano un reprobo: per esempio me.


Pellizzoni, fingendo di parlare per proprio conto, rimandava al mittente, e in tono canzonatorio, imitando lo stile e la voce di Mussolini, declamava: "Ci è andata male...altrimenti... ora... eravamo i padroni del monnndo! Del mondo!". E visto che il comunista schiattava al sentire questa frase; Pellizzoni la prese come intercalare. E quando la ripeteva, tutti guardavamo divertiti quell’altro, che ingoiava amaro.


Tra di noi, come già ebbi a notare, c’erano delle buone lane cioè, per dirla in chiaro, dei veri e propri ladri i quali, forse per restare in esercizio, commettevano furtarelli di poco conto, che a loro non davano alcun utile, ma che per contro, mettevano in cattiva luce la comunità dei rifugiati.


Talvolta, nel nostro campo erano apparsi degli oggetti: uno slittino, un paio di sci, due racchette per neve e altro, di cui era inutile cercare il proprietario, perché nessuno ne ammetteva il possesso. I contadini lamentavano anche la sparizione di indumenti, lavati e stesi ad asciugare.


Una notte, fummo svegliati di soprassalto dall’irruzione in camerata, di due soldati della Polizia Militare; i quali c’intimarono di aprire i nostri bagagli, per una perquisizione. L’ispezione, molto accurata, durò un paio d’ore, ma fu infruttifera. Di questa operazione nessuno ci disse il motivo, ma nei giorni seguenti venimmo a sapere, che gli agenti cercavano una capra, scomparsa nei dintorni. Restammo allibiti a chiederci, se la Polizia Militare, sperava davvero di trovare l’ovino a dormire con noi, o a pezzi nelle nostre valige. Per colpa di pochi, eravamo famigerati, e quindi in permanente alea di sospetto.


 

 

LA FILODRAMMATICA


Il tenente Livieri, nativo di Teramo, aveva la rappresentanza dei rifugiati, nell’ambito di Allenlüften. Alto e rossiccio di capelli e baffi; era simpatico e cordiale, ma molto riservato; un uomo comunque eccezionale per levatura intellettuale e spirito organizzativo, che però evitava accuratamente di mettersi in mostra. Strano!


Livieri, a motivo del suo compito, aveva molti contatti con la moglie del Pastore, altra persona molto dinamica; e tra i due, scaturì l’idea di organizzare uno spettacolo teatrale, scegliendo gli attori tra i rifugiati.


Il Pastore, mise a disposizione il teatro di Laupen, per le prove e per il debutto. Si creò un comitato promotore. Un nostro compagno; già esperto in Italia di spettacoli filodrammatici, presso la sua parrocchia di Malgrate, vicino a Lecco; ebbe il compito della regia. Fu così relativamente facile, far pervenire da Malgrate, il copione di un dramma strappalacrime, intitolato "Vortice", con personaggi tutti maschi.


La trama verteva sul rapporto tra due fratellastri, di cui uno: cuor d’oro e povero; e l’altro: ricco e altezzoso. Per farla breve: mentre nella casa del fratellastro ricco, questi sta discutendo con quello povero; entra un ladro il quale, scoperto dal padrone di casa, gli spara un colpo di pistola. "Cuor d’oro" si frappone e il proiettile lo colpisce a morte. Scena madre: il fratellastro ricco regge, a terra, tra le braccia il morente, ed entrambi piangono pronunciando parole d’amore fraterno. Morale parrocchiale: i ricchi sono egoisti e i poveri generosi.


Cast: il Regista, si assunse anche una parte da figurante: quella del padre dei due fratellastri. A me fu assegnato il ruolo del fratellastro ricco, e a un altro quello del povero. La parte del ladro, se la prese uno che, almeno dall’aspetto, gli andava a pennello.


Mentre gli attori memorizzavano le rispettive parti, il tenente Livieri, ebbe il suo bel daffare, per ottenere il prestito, dalla gente del luogo, di mobili e suppellettili per le scene.


Parecchie volte la Compagnia andò al teatro di Laupen, per le necessarie prove. Sul palcoscenico il Regista dava suggerimenti a noi attori. Io, nelle pause, studiavo il quadro degli interruttori, per ottenere i migliori effetti di luce; e collaboravo anche alla scenografia: questione di semplice buon gusto.

Ci fu qualche problema: io, possedendo solo abiti da lavoro, non potevo con quelli, presentarmi in scena nei panni del "fratellastro ricco". Il tenente Livieri, risolse l’intoppo, convincendo un nostro collega, della mia taglia, a prestarmi, per lo stretto tempo delle recite, il suo abito nuovo.


Impossibile fu invece trovare una vera scacciacani, dovemmo ripiegare su una pistola giocattolo, la cui carica a salve, era contenuta in un tappo di sughero, che doveva essere inserito nella parte anteriore della canna.


E venne il giorno del debutto. Da una lettera, un po’ enfatica, che allora ventitreenne scrissi, a mia Mamma, con pseudonimo femminile per sicurezza, stralcio la cronaca dell’ avvenimento:


"... Ho debuttato come artista filodrammatica. Non è questo un colpo di fulmine per Lei, signora Antonietta? Ma quello che Le ho detto, corrisponde a verità. La rappresentazione è stata preparata da una compagnia di dilettanti, anzi, addirittura di esordienti, alcune settimane fa, ed io ebbi la soddisfazione, di vedermi assegnata la parte del secondo personaggio. Dopo studio assiduo e numerose prove, la troupe si trovò in grado di dare la "prima" in un locale di provincia, alla presenza delle autorità del luogo. Le assicuro, Signora, che all’aprirsi del sipario, una tremarella si impossessò di me, al punto che mi pentii di essermi impegnata in quella faccenda; ma tutto andò benissimo. Ben presto le centinaia di occhi che, nell’oscurità, mi fissavano; non mi fecero più impressione e, davanti al pubblico, ritrovai la mia disinvoltura abituale e; salvo qualche papera; di cui nessuno s’accorse, me la cavai, come gli altri, egregiamente bene. Ricevemmo elogi da tutti, tanto che persone intervenute con scetticismo allo spettacolo, si affrettarono a ricredersi ed a complimentarsi con noi.


La recita fu poi ripetuta in altri locali, col medesimo successo. L’ingresso era libero, ma le offerte all’uscita, permisero in seguito, a tutti i componenti della Compagnia, di partecipare due buoni pranzetti ".


Per decenza, nella suddetta descrizione omisi allora di raccontare l’ inconveniente verificatosi, a causa della pistola giocattolo. Una signora, amica della moglie del Pastore, la quale aveva seguito, da vicino l’allestimento della recita, mi confidò, dopo la "prima", che il tappo con la carica a salve, inserito nella canna della pistola, era molto visibile dalla platea, e che lei si attendeva, invece dello scoppio, com’era avvenuto, che il turacciolo andasse a colpire il bersaglio, con un effetto poco opportunamente comico.


La critica era fondata, e alla prima replica, pensammo di verniciare con inchiostro nero il tappo, in maniera che si confondesse col colore della pistola. Disgrazia volle che, al momento critico, l’arma non diede il botto, ma un desolante, ripetuto: Click! Click! Click! Alla fine il Regista, dalle quinte; battendo una stecca sopra un tavolo; provocò un colpo secco e, per un pelo, la tragedia non si mutò in farsa.


Dopo lo spettacolo, il Direttore spiegò alla compagnia che, nella finzione teatrale, è un fatto frequente il mancato funzionamento delle armi da sparo; e che a tale inconveniente, si ovvia con l’intervento di qualcuno che, tra le quinte, sia pronto a provocare, con un mezzo di fortuna, un rumore simile allo scoppio.


Naturalmente, con l’arma ribelle sparammo, durante le successive prove, alcune cartucce, con esito positivo; tanto che, alla seconda replica, eravamo abbastanza fiduciosi su questo punto. Invece, al momento dello sparo, la pistola fece: Click!, e subito dalle quinte si udì un susseguirsi di "Patapim!" e "Patapam!", per cui, questa volta il pubblico scoppiò in una fragorosa risata. In troppi, fuori scena, maneggiando i più disparati oggetti, erano intervenuti volonterosamente col play-back.


Sul palco, io e il mio fratellastro morente, stillammo lacrime vere!


Fortunatamente, dato che gli attori avevano ben interpretato i loro personaggi, non mancarono molti applausi, e la critica colpì soltanto gli anonimi "rumoristi".


Per quanto mi riguarda, quello spettacolo fu una interessante, ed anche molto emozionante esperienza.



 

 

ALTRI IMPREVISTI DI SCENA


Replica. La recita inizia, a luci abbassate e sipario chiuso, con un prologo tenuto da un ufficiale svizzero il quale, parlando tedesco, chiarisce al pubblico che gli attori sono tutti rifugiati militari italiani. Segue poi, una breve traduzione della trama.


A questo punto, le luci in platea si spengono, mentre si apre il sipario e appare a scena di una illuminatissima sala da pranzo, nella quale sono riuniti, attorno alla tavola imbandita, il padre e i due fratellastri.


La prima battuta spetta a me, e incomincia con la parola: "Papà! ...".


Luci di scena in pieno viso; il sipario aperto; la platea completamente buia, centinaia di occhi bianchi, illuminati dai riflessi, mi puntano. Il silenzio è assoluto. Ora tocca a me parlare; ma la lingua è incollata al palato e disubbidisce alla mia volontà. Passa qualche attimo: a tavola, gli altri due sono tranquilli, sicuri che la mia pausa, sia un effetto di suspense da me calcolato. Ho, a memoria, tutte le battute della recita: le mie e quelle degli altri, ma il suggeritore, fa il suo mestiere, e continua a ripetere: "Papà... papà... papà..."; mentalmente gli dico : "E stattene zitto, che mi blocchi ancor più!". Intanto penso: "Giorgio, datti una mossa, altrimenti sai che frittata?". All’idea terrorizzante, si stacca la lingua e salta fuori quel maledetto: "Papà...". Il Papà risponde, e la recita prende l’avvio. In seguito, il tutto mi sembra più facile, perché, ormai sono entrato nel personaggio.


Ad un certo punto devo dire: "Tu lo sai, quel ragazzo è orfano..." ; e invece, per un lapsus linguae, mi scappa: "Tu lo sai, quel ragazzo è figlio di... é figlio di...". Entrato in stato confusionale penso: "Come vengo fuori adesso da questo angolo? Che gli racconto ora alla platea?". Intanto il suggeritore continua sommessamente a darmi la battuta: "Tu lo sai, quel ragazzo è orfano... Tu lo sai, quel ragazzo è orfano... Tu lo sai...". Penso infuriato: "E dagli suggeritore! Quella battuta non serve più; lo capisci o no? Inventane una adatta!". Ma lui continua: "Tu lo sai, quel ragazzo è orfano...". Rimedio con uno scatto nervoso, esclamando "Insomma: tu lo sai di chi è figlio!". E tutto riprende liscio.


Altre volte, esco dal binario del copione, con varie battute di mia invenzione; magari anche incoerenti; in sostituzione di quelle dimenticate; per riprendere poi, quando mi tornano alla mente, quelle prescritte. Noto, con sorpresa, che, non solo il pubblico non si accorge di questi svarioni, ma gli stessi attori a cui cambio le carte in tavola, non mostrano sorpresa, intenti come sono a recitare, una dopo l’altra, le frasi che riguardano la loro parte. Effetti della tensione.


Dopo la terza replica, trovammo la causa che impediva alla pistola di sparare: l’inchiostro nero con cui tingevamo il tappo contenente la carica, inumidiva la polvere, che così perdeva la sua capacità d’accensione. Saperlo prima!


Nel corso dei lavori dello spettacolo teatrale, ero entrato in buona amicizia col tenente Livieri, per quanto ciò fosse possibile, con una persona come lui. Avevo capito ch’egli apprezzava la discrezione, e per questo mai gli posi interrogativi sulla sua professione in Italia, o sulla sua famiglia, o sui suoi programmi futuri. Durante le nostre camminate, tra Allenlüften e Laupen, e ritorno; si discuteva sull’andamento della guerra; si pronosticava sulla sua fine; si commentavano i lavori al teatro, gli inconvenienti verificatisi durante le recite, e i perfezionamenti per le repliche future. Ma niente domande personali. Fu lui implicitamente, ad imporre questo limite, perché mai aveva incominciato a farne. Però, sugli argomenti ammessi alle nostre conversazioni, eravamo concordi in molti punti, e ciò rinfrancava la reciproca simpatia.


Durante una delle nostre passeggiate, mentre parlavamo della guerra, mi ricordai la pistola della nostra recita, e saltando di palo in frasca, esclamai: "Tenente, alla quarta replica, la pistola sparerà sicuramente: abbiamo scoperto la causa della cilecca...". Egli rimase qualche attimo silenzioso e avvertii, con sorpresa, che stava cercando una risposta. Alla fine mi annunciò: "Non ci sarà una quarta replica, perché ho deciso di rientrare in Italia." Capì molto più dall’espressione del mio viso, che dalle parole che non pronunciai, e mi spiegò: "Sono in contatto con i Servizi segreti italiani: ritorno clandestinamente per collaborare. A te solo lo preannuncio, per una questione di lealtà e in omaggio alla nostra amicizia.". A mia volta tardai a rispondere, poi: "Grazie Tenente: mi duole, perché non ci rivedremo più.".


Egli non mi raccomandò, ciò che sapeva fosse superfluo, ossia: "Non dire niente a nessuno". E riprendemmo a parlare della guerra.


Una settimana appresso, Livieri, mi comunicò: "E’ per domani." Ci stringemmo la mano: "Tanti auguri, Tenente!", e, da quel momento, non lo vidi più.


Il giorno dopo, corse voce per il campo, che il tenente Livieri, era scomparso. Nessuno si emozionò. In Svizzera quando uno straniero sparisce, è soltanto per nostalgia del suo Paese.


Il completo da "fratellastro ricco", prestatomi per la recita dal mio compagno di internamento, punse la mia vaghezza, tanto che fui spinto a chiedere all’amico, dove se l’era procurato. Venni così a sapere che, al campo di Laupen, un rifugiato si guadagnava un po’ di franchi, confezionando vestiti ai colleghi.


Andai dal sarto. Accipicchia, com’era organizzato! Aveva cataloghi di tessuti, di fodere, di bottoni: bastava scegliere e pagare. Chiesi un preventivo: la gran voglia di avere il vestito, mi fece giudicare il costo equo. Diedi l’ordine e versai l’acconto. Scelsi un tessuto gessato grigio. L’artigiano mi prese le misure: "Tra dieci giorni torna per la prova.". Intanto, i soldini accantonati nel mio portafogli col lavoro dai Weber, avevano preso una prima sventola. Il ko al saldo.


Dieci giorni dopo, ritornai: il sarto era stato di parola. Indossai l’abito imbastito: prima i pantaloni e poi la giacca. Sette tratti col gessetto quadro, e poi: "Tra quindici giorni, torna: il tuo vestito sarà pronto."


La sera ad Allenluften ci furono novità: "Preparatevi: dopodomani cambierete Lager.". Prima della partenza, trovai il tempo per ritornare dal sarto, e informarlo: "Siamo trasferiti, ma tra quindici giorni, come d’accordo, sarò qui per il ritiro: non farmi fare un viaggio per niente.". Mi rassicurò: "Vai tranquillo!".


giomarkin@virgilio.it

 

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