Vecchio Giorgio 3

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" Fascista per nascita"

IL GERARCA STARACE STANZA 4 ADDIO!

 

IL GERARCA STARACE

Quel 28 Ottobre 1938, anniversario della "Marcia su Roma", il Segretario del Partito Fascista, Achille Starace, venne a Milano, per tenere un discorso commemorativo, al Teatro Lirico. Era risaputa

la grande devozione e fedeltà, che quest’uomo riservava al Duce, per cui noi, del "Gruppo Benito Mussolini", non potevamo non essere i primi, a varcare l’entrata del Teatro, per occupare i posti migliori. Io arrivai, con altri giovani fascisti, alle poltrone di un palco di secondo piano, confinante con quello di proscenio. Magnifico! Vedevo l’importante Gerarca alla distanza, in linea d’aria, di dieci metri.

Starace, sul palcoscenico, prese la parola con il consueto: "Saluto al Duce", a cui tutto il Teatro, occupato esclusivamente dal nero degli orbaci, rispose "A noi!". Il discorso tracciò la storia del fascismo, dai prodromi della "Marcia su Roma", fino ai giorni nostri (di allora), con la fulgida conquista dell’Impero. Molte furono le interruzioni, per gli interminabili applausi e per il ripetuto grido d’annunziano: "Eia! Eia! Eia! Alalà!".

Terminata la cerimonia ufficiale, Starace si intrattenne per rispondere alle varie questioni, che i suoi
vecchi camerati della "prima ora", gli ponevano dalla platea; dimostrando di essere ben al corrente, di quanto gli italiani pensassero di lui e del Duce. Ad un tratto, con un gesto da guitto, aprì la sua sahariana, slacciò la cintura dei pantaloni e, ostentando di stringerla di un buco, urlò: "Lo so, che gli italiani si lamentano perché hanno poco da mangiare. Vedete? Anch’io tiro la cinghia; ma teniamo presente, che pure l’Italia Fascista, aveva il diritto di ottenere il suo posto al sole; conquistando, come ha conquistato, l’Impero. Questo, le plutocratiche democrazie, non ce l’hanno perdonato, e ci hanno imposto le inique sanzioni... Ma noi non ci piegheremo e tireremo diritto!". Applausi al grido di "Duce! Duce!", e subito dopo, nel parterre, un gruppo di squadristi interruppero il Segretario, intonando la "Cantata dei Legionari":


"Ce ne fregammo un dì della galera,

ce ne fregammo della brutta morte,

per preparare questa gente forte,

che se ne frega adesso di morir!

Il mondo sa che la camicia nera,

si indossa per combattere e morir!

Duce!

Per il Duce e per l'Impero

eia eia, alalà! Alalà! Alalà!".

Si capiva senza indugi, che la Rivoluzione Fascista, quelli che in platea cantavano, l’avevano combattuta sul serio. E a me vennero i brividi, non so se di paura o d’ammirazione.

Starace riprese la parola e, forse per dissipare un po’ quell’anacronistico odore di polvere da sparo, che sembrava aleggiare nel teatro, riprese sorridendo: "So anche, che su di me e sul nostro Duce, gli italiani raccontano barzellette, ed io potrei ripetervele tutte: una ad una.". Qualcuno lo provocò: "Racconta! Racconta!". Il Segretario, non potè allora tirarsi indietro:

"E’ nota la critica che mi si rivolge, per il gran numero di modelli di divise che ho creato; così qualcuno ha creduto di ironizzare sul fatto,con questa storiella: "Siamo al Teatro della Scala di Milano, dove il Duce, dal palco d’onore, ha assistito alla rappresentazione dell’Aida. Dopo gli applausi di rito, e a tela definitivamente calata, io mi presento subito nel camerino del tenore Beniamino Gigli, che ancora indossa il costume di Radames, e lo invito a venire con me, perché lo voglio presentare a Mussolini. L’attore accetta, ma, non appena ci troviamo al cospetto del Duce, questi, guardando il vestito di Gigli, subito esclama: ‘No, Starace! Basta, con queste nuove divise!’".

Il Gerarca se la cavò bene, raccontando la meno incisiva delle storielle sul suo conto; ma a me, per associazione di idee, venne in mente, che la satira corrente lo definiva con questo motto lapidario: "Achille Starace, servo loquace, del Lupo rapace.".



 


STANZA 4 ADDIO!



Ormai eravamo in guerra: strade buie, illuminate dalla tenue luce blu dei lampioni; finestre oscurate con carta nera, o spessi tendaggi; vetri rinforzati, con strisce gommate applicate a croce; e autoveicoli con parafanghi orlati di bianco e fari mascherati, i quali lasciavano uscire appena un rettangolino di luce, non tanto per vedere, quanto per essere visti. Quanta tristezza!

Le strade erano battute dalle squadre della UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea); un’istituzione di volontari di pronto soccorso. Battevano le strade anche quando non erano in emergenza; per segnalare anche la più piccola infiltrazione di luce, che fosse uscita dalla finestra di una casa: "Luce al secondo pianoooo!". E la luce immediatamente si spegneva, come se il colpevole avesse risposto: "Scusate!". Finì, che qualsiasi passante, di notte, si sentiva, al caso, di sostituire l’UNPA: "Luce al quarto pianoooo!". Piccolo piacere, tra il comando, nell’oscurità, imposto senza rischi, e la presunzione di aver compiuto un proprio dovere.

Cartoline di richiamo, erano partite dal Distretto Militare. Una arrivò anche a Torriani, che lo destinava al Genio Militare, presso il quale aveva già prestato servizio di leva. La partenza di Torriani, mi aveva amareggiato: tanto valeva che anch’io cambiassi ambiente. 

Nel Gruppo, per chiamata alle armi, si dovettero assentare molti altri fascisti, e perciò rimasero vacanti alcuni incarichi amministrativi. Colsi così, l’occasione per chiedere e ottenere un posto, rimasto scoperto, all’ufficio tesseramento.

Continuai con le mie presenze alla Fanfara, e a quelle richieste nelle occasioni di importanti manifestazioni, le quali, per lo stato di guerra, erano però divenute, più rare e più modeste.

Nella nuova stanza, che praticamente era l’Ufficio Cassa del Gruppo, dipendevo dal Tesoriere, un uomo anziano, sale e pepe di capelli, molto cordiale ed educato. Si chiamava Martinoli. Simpatizzammo subito. Io ero stato assegnato allo sportello delle tessere GIL; un camerata, che si occupava degli altri incassi, lavorava ad un secondo sportello. 

Il nuovo incarico, era sempre di volontariato, ma godeva di un’indennità di 150 lire mensili; a titolo di "rischio maneggio denaro", in relazione al movimento di carta moneta, nelle operazioni di nuove iscrizioni al Partito, di rinnovi di tessera, e di vendita distintivi. Dato che i rischi erano irrisori, le 150 lire rimanevano nelle mie misere tasche. Meglio che niente.

Mi venne da pensare che, nella mia breve vita di lavoro, tutte le volte che avevo avuto un impiego retribuito, accadeva qualcosa per la quale, in breve, mi ritrovavo senza occupazione.

Presentimento? No! Divinazione! Infatti, due mesi dopo, mi pervenne una cartolina dal Ministero della Guerra, con la quale si invitava la S.V. (Signoria Vostra), a presentarsi il giorno 4 Febbraio 1941, alle ore 9.=, al Distretto Militare, di Milano, presso la Caserma di via Mascheroni; per assolvere gli obblighi di leva. D’accordo: prima o dopo doveva accadere, ma accadde prima.

La sera del 3 Febbraio, un lunedì, restituii il mio trombone, all’Amministratore della Fanfara, e presentai le consegne del mio lavoro al signor Martinoli, col quale poi ci salutammo calorosamente. A piano terra, salutai anche quel can mastino del portiere, sempre in camicia nera, il quale mi raccomandò: "Ciao: ti aspettiamo dopo la Vittoria eh!". Allontanandomi risposi: "Si, si!".

Quattro anni appresso, dopo la "Vittoria", quella degli angloamericani, nell’edificio del mio Gruppo Fascista, in via Ceresio, ci trovai un altro portiere, ma questo in camicia bianca: era un dipendente statale del Ministero delle Finanze. Lo stabile aveva cambiato padrone.

La mattina del 4 Febbraio 1941 abbracciai, senza drammi, i miei famigliari e, con una valigetta di legno, contenente le mie cose; andai al Distretto Militare.

Il cielo era plumbeo, la temperatura abbastanza rigida. Nei giorni precedenti aveva nevicato e per le strade di Milano, che nessuno aveva sgomberato dalla neve, si camminava nel piciopacio del disgelo.

Con qualche centinaio di altri coscritti, dopo aver consegnato la cartolina, attesi ore nel cortile della Caserma, in piedi e sullo sterrato bagnato. Alle quattro del pomeriggio, eravamo ancora lì, ad attendere. Nulla ci fu dato da mangiare.

Per strana concomitanza, nel 1916, venticinque anni addietro, mio padre; in attesa di partire per il fronte della Prima Guerra Mondiale 1915/18; in quella stessa Caserma del Distretto, e in quel medesimo cortile, lui pure stette in attesa di ordini per ore, e a lui pure fu negato un pasto a mezzodì (così risulta dalle sue memorie di guerra). Destino di sangue?

Finalmente, incolonnati alla carlona, e imbarcando acqua nelle scarpe; camminammo nel bel mezzo delle strade, ridotte a una sola pozzanghera, sino alla Stazione Centrale. Ci caricarono su un convoglio, che partì in tarda serata per destinazione ignota. 

Saltammo anche il pasto della sera e, a stomaco vuoto, passammo la notte. Parlo solo per me, perché alcuni miei compagni di viaggio, intelligentemente si erano premuniti, con panini e frittate casalinghe. Qualcuno anche col fiasco di vino. 

Quando, al mattino il treno si fermò e ci fecero scendere, apprendemmo che eravamo a Ospedalicchio, nei pressi dell’Aeroporto Militare di Perugia.

Ma che sto scrivendo? Ma questa è un’altra storia! Arrivederci.

 

giomarkin@virgilio.it

 

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