Vecchio Giorgio 5

Le sue poesie 1 - 2 - Poesie per i bambini - Racconti di vita 1 -2-3-4-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15    

Racconti della serie : VACANZE

VACANZE AL MARE DOPO IL MARE LA MONTAGNA  UN RODEO CON L’ASINO LA FAMIGLIA FOA’
,5a,66,66,62,60,5c,3c,65,58,59,63,5c,5b,20,4,1,72, materna mi mancò. L’Otello mi trascinò a viva forza verso il mare e, incurante dei miei strilli, mi caricò come un sacchetto di patate sulle sue spalle, ricamate da scottature solari, ordinandomi quasi minaccioso: "Tienti bene, bel bambino, altrimenti rischi di bere acqua di mare!". Mi tenni bene, ma l’acqua di mare la bevvi egualmente, perché quell’energumeno aveva preso a nuotare a larghe bracciate in stile libero.

Per pranzo e cena andavamo nel grande salone dell’Hotel, ed eravamo serviti al tavolo da camerieri che; dai lunghi piatti ovali, che reggevano col braccio sinistro; prelevavano, con opportune posate, le porzioni per deporle poi, con eleganza professionale, sul piatto del conviviale. A me questo comportamento piaceva un mondo, anche perché, dopo avermi servito, il tavoleggiante, ignorando di proposito i miei cinque anni e dandomi del lei diceva: "Ne desidera di più?". Ed io: "Si, si. Grazie!".

Al sabato, scendeva dal cosiddetto "Treno dei cornuti" (ogni riferimento è puramente casuale) Papà, il quale ogni volta mi portava un nuovo giocattolo, e stava con noi sino alla sera della domenica.

Un’altra estate, anni dopo, andammo a Camogli, al "Pesce d’oro": il Ristorante della Stazione. Molto più modesto dell’Hotel Milano di Levanto, ma con una cucina parimenti d’alta classe. Il proprietario, signor Paolino, era un ex Chef del transatlantico Rex, e quando, personalmente, serviva a tavola i suoi capolavori gastronomici, non aveva bisogno di credenziali per convincere sulla sua professionalità.

Dormivamo al secondo dei sei piani di un vicino stabile, senza ascensore, tanto vecchio e malandato, che ci si doveva chiedere perché mai stesse ancora in piedi. Due stanze con gabinetto e lavabo. Ora non so, ma la Camogli che ricordo era fatta così: case molto vecchie e altissime; villeggianti che le affollavano come topi, e che ne pagavano i fitti senza discutere.

Al primo piano il Ristorante possedeva un giardino pensile, raggiungibile da una rampa dalla vicina piazza, il quale, separato da una cancellata alta meno di un metro, confinava col marciapiede dei binari della vicina Stazione ferroviaria. Il giardino e un salone attiguo disponevano; come naturalmente la grande sala del piano terra; di tavoli e sedie al servizio dei clienti.

Il "Pesce d’oro" era molto frequentato da commessi viaggiatori, i quali preferivano, al termine della loro mattinata di lavoro, consumare i pasti ai tavoli del primo piano. Un motivo c’era. Finito il loro pranzo, questi baldi giovanotti attendevano, tranquillamente seduti, l’arrivo del loro treno e, quando lo sentivano giungere sferragliando, valicavano con un balzo la bassa cancellata e già, in tal modo, si trovavano in stazione.

Col tempo, le signore villeggianti, entrarono in amicizia con questi rappresentanti di commercio, e dopo i pranzi, nelle prime ore del pomeriggio, quando la spiaggia era rovente e quindi sconsigliabile, là in alto, nella terrazza del "Pesce d’oro", si formava una bella combriccola di giovani uomini e madri di famiglia, che per un paio d’ore, conversavano piacevolmente, scherzando, ridendo e raccontandosi barzellette. In fondo una forma innocente di evasione alla noia, a cui anche Mamma partecipava, non trovandovi nulla da ridire.

Però, a quelle riunioni di adulti, i bambini davano fastidio, sia perché rumorosi, sia perché i discorsi, le allusioni e le storielle, arrivavano talvolta all’osé. Allora le madri avevano lo scrupolo di allontanare i pargoli, mandandoli a prendersi un gelato al bar del piano terra, o dando loro qualche incarico, tanto per disperderli temporaneamente.

Mia Mamma, per risolvere questo piccolo problema, incaricava mia sorella, di portarmi nelle nostra camera da letto, di tenermi compagnia sintantoché mi fossi addormentato, e di sorvegliare il mio sonno sino al risveglio. Comunque di ridiscendere alle quattro del pomeriggio, per andare al mare. Io protestavo vivacemente per questa forma di sequestro, ma era voce nel deserto.

Per inciso è da dire che Renata aveva allacciato una tenera, innocente amicizia con un certo Conte Giorgio Raoul Pettinelli, un giovanissimo Capitano di lungo Corso, che assomigliava tanto a Rodolfo Valentino, il quale capitano però, a detta dei maligni, era solito, per amor d’avventura, irretire belle adolescenti, che poi piantava in asso. Il Conte frequentava il Ristorante e quando Mamma incominciò, a sospettare che l’amicizia di mia sorella col bel blasonato di lungo corso, stava per divenire pericolosa, aumentò la sua "discreta" sorveglianza: "Tu con quello non ci vai più. Punto e basta!"; affinché i due giovani non avessero occasione di restare soli.

Ma si sa come vanno queste cose. Quando, al pomeriggio, nella nostra camera io mi addormentavo, Renata se ne andava alla ricerca del suo amato bene, ripromettendosi di ritornare in tempo utile per ridestarmi alle quattro. Una volta però, per un brutto sogno, io mi svegliai di soprassalto e, trovatomi tutto solo, ne approfittai per lasciare di corsa la stanza diretto, per le strade di Camogli, nel mio luogo preferito: gli scogli del molo, a giocare con i gatti e a caccia di granchi.

Quando poi Renata, tornata puntuale alla camera per risvegliarmi, vide il mio letto vuoto, si precipitò galoppando verso il porto, dove era sicura di trovarmi e, coltomi infatti alle prese con un bel micione, se si limitò a un acerbo rimprovero, evitandomi gli scapaccioni, fu soltanto per assicurarsi la mia omertà.

In seguito imparai anche a fingere di dormire, guadagnando così più tempo da passare al molo. Ma qualche volta mi addormentavo veramente della grossa e allora tutto procedeva secondo gli ordini ricevuti

Un pomeriggio però, mia sorella arrivata trafelata al porto, non mi trovò, perché io, durante la mia solita scappata, avevo incontrato per strada l’amico Michael, un coetaneo austriaco, che m’aveva invitato a casa sua, in quel di Ruta, come altre volte in precedenza, a consumare la merenda. La mamma di Michael, era una Frau molto a modo, e con me si comportava con simpatia e grande cortesia, che ricambiavo senza fatica, in considerazione delle colazioni che sapeva preparare: fette biscottate, biscotti, strudel, cioccolata in tazza, burro e marmellata di ciliege, miele; tutto a volontà: roba da farmi dimenticare ogni impegno famigliare e i rischi conseguenti.

Dopo reiterate e vane ricerche, mia sorella dovette arrendersi alla mia irreperibilità, e si presentò a Mamma, inventando, poverina, che io le ero scappato di mano. Ricevette dalla nostra allarmata genitrice un diktat tipo: "Torna a cercarlo e fa in modo di trovarmelo, altrimenti ti riempio di botte.".

Incontrai Renata sulla strada del ritorno al Ristorante, e con lei complottai per salvarci dalle botte. Raccontai a Mamma che effettivamente ero scappato, perché da lontano avevo visto Michael, che poi m’invitò a casa sua. Dopo qualche domanda insidiosa, sulla mia partecipazione alla merenda, a cui risposi dribblando angelicamente con dovizia di particolari, la mia giudicante, considerato che non ero andato tra i pericoli del molo, e che Michael e sua mamma godevano la fama di brave persone, mi assolse. Ma con riserva: tanto per non cambiare.

Certi giochi si possono fare una sola volta, per cui mia sorella non si allontanò più dalla nostra camera durante il mio riposo pomeridiano. Passava il tempo con i cruciverba della "Settimana Enigmistica": un settimanale di passatempi che aveva incominciato le pubblicazioni proprio in quei giorni.

Il primo amore è un sentimento forte. Rientrati dalla vacanza al mare, Renata, con la complicità di una nostra intrigante zia, mantenne un rapporto epistolare segreto, col Conte Pettinelli, Capitano di lungo corso. Il tempo e la lontananza, provvidero poi ad estinguere questa innocente vivida fiamma.

Al Ristorante "Pesce d’oro", dopo aver servito i pasti del mezzogiorno, un cameriere, Armando, riassettava le sale: raccoglieva dai tavoli formaggiere e spargisale, bottiglie ed oliere; sostituiva le tovaglie e scopava i pavimenti. Io assistevo a questi suoi lavori chiacchierando con lui, che era simpatico ed aveva molta pazienza con tutti. Un giorno egli mi disse: "Oggi, purtroppo non posso darti retta, sono in ritardo ed inoltre ho un urgente impegno". Replicai: "Allora io l’aiuto.". Senza attendere risposta, presi una scopa e incominciai a ripulire i pavimenti, mentre lui, incuriosito, mi lasciava fare. Da quel giorno, presi sul serio quel tipo di impegno, sino ad imparare anche tutti gli altri lavoretti. Poiché ero diligente e svelto nell’assolvere quelle piccole mansioni, Armando si trovò in breve, dimezzato il tempo dedicato alle sale. Ciò era per lui importante perché il suo impegno del mattino terminava proprio col riassetto dei locali da pranzo. Dopo, aveva lo stacco meridiano e sino alle sei di sera non ritornava al Ristorante.

Ma Armando era anche una persona onesta, tanto che un giorno finì per premiare le mie "fatiche" dichiarandomi: "Tu lavori bene e mi fai guadagnare del tempo. D’ora in poi è giusto che io compensi il tuo aiuto, tutti i giorni nei quali me lo darai."; e mi consegnò una moneta da venti centesimi di lira (in Euro = 0.0001033).

Io la presi senza reclamare gli arretrati.

 



DOPO IL MARE LA MONTAGNA

Per tutelare la mia salute, il dottor Pasargiklian aveva consigliato i miei genitori, dopo l’iodio del mare, di ossigenare i miei polmoni con l’aria di montagna.

Di conseguenza, terminati i soggiorni liguri, ci si trasferiva, in località di mezza montagna, in alta Brianza. Si affittavano camere nelle cascine dei contadini, e si occupavano le ampie cucine, con grandi camini e tavoloni di legno massiccio. Allora la villeggiatura la si intendeva così, ed era facile che, per l’estrema vicinanza tra nuclei famigliari di cittadini in vacanza, si formassero compagnie numerose, che organizzavano gite, con colazioni al sacco.

Le mete di questi diporti erano modeste cime montagnose, come i Corni di Canzo, o il Piano del Tivano, o, al massimo, il Monte Palanzone (m. 1480 s.m.), il quale costituiva già una vera conquista, per le esili membra dei gitanti. Questi, strada facendo, si selezionavano spontaneamente in gruppi: quello degli uomini in avanguardia, a cui seguiva, a breve distanza, un altro delle mogli e infine, in coda, seguivano i giovani e gli infanti. I padri di famiglia; in genere ex combattenti; nell’arrancare per mulattiere e sentieri, si crogiolavano nei ricordi e sacrifici personali, sofferti nelle trincee della recente guerra 1915/18; le signore chiacchieravano di bambini, di ricami e di problemi famigliari: i giovani adolescenti, scherzando e ridendo gaiamente, prendevano pratica nei rapporti tra i due sessi, sognando principesse e principi azzurri. Noi bambini davamo caccia alle lucertole e incoscentemente, di nascosto, gettavamo dall’alto della montagna qualche sasso per il piacere di vederlo rotolare e saltare sulle falde scoscese verso valle.

Conquistate le ambite vette, si chiedevano ai montanari dei rifugi: polenta; formaggi e salumi caserecci; e latte appena munto, da accompagnare alle vivande estratte dai nostri zaini.

L’estate precedente, 1929, eravamo andati a Caglio, un paese più a Nord di Canzo e più alto sul livello del mare (850 m.); ospiti nella cascina di due simpatici contadini: il Pepp (Giuseppe) e la Cecca (Francesca), entrambi sull’orlo della vecchiaia, e dai visi color ambra, solcati da profonde rughe. Pepp portava due baffoni alla Francesco Giuseppe d’Austria e con la moglie, nonostante il loro basso livello culturale, condivideva la saggezza e la filosofia, che la natura insegna a chi, a lungo, l’affronta nei campi. I loro figli avevano lasciato la casa paterna, creandosi una famiglia e acquistando poderi nei dintorni, per cui i vecchi, nella stagione estiva, affittavano i locali rimasti vuoti.

La cascina, stava ad un passo dalla piazza della chiesa, ed aveva un ampio cortile da cui, attraversato un sottoportico, si giungeva ad uno slargo, dov’era la stalla con alcune mucche e capre. Al mattino presto questi animali; appena svuotati di latte dal mungitore, venivano muniti di collare con campanaccio o campanella e, lasciati liberi, uscivano spontaneamente dalla cascina; attraverso il grande cortile; per unirsi ad altro bestiame, badato da pastori incaricati e da cani, per compiere la transumanza quotidiana verso i pascoli di montagna, .

A noi, arrivati dalla città; quello scampanellare alle sei del mattino, che si aggiungeva ai diuturni rintocchi del vicino campanile; il quale segnava le ore, non perdonando nemmeno i quarti; scardinava i sonni; specialmente nei primi giorni. Tuttavia ci si consolava pensando: "Già, ma siamo in vacanza".

Prima del tramonto, la mandria ritornava, preannunciata dal suo multiforme scampanare, ed ogni animale riconosceva da solo la strada della propria stalla. Per me ragazzino, questa emancipazione bovina, aveva del prodigioso e mi veniva da esclamare meravigliato: "Ma allora le bestie, non sono proprio bestie.".

Una sera, con gli animali della nostra cascina entrò anche una capra estranea, che si fermò smarrita nel cortile. Io, approfittai di questo incontro per andarle vicino ed accarezzarla, qualcuno vedendo il mio interesse mi consigliò: "Prova a darle un po’ di sale.". Non me lo feci ripetere: andai verso la cucina, che era al piano terreno, e da un pacchetto presi una manciata di sale grosso. La capra, quasi avesse capito (o aveva capito?), mi seguì, arrestandosi però educatamente sulla soglia del locale, e quando le porsi nel cavo della mano il contenuto, cominciò con la sua ruvida lingua a leccare con delicatezza e avidamente, sino a lasciarmi il palmo vuoto e umido. Poi restò lì ferma, quasi ad attendere la replica. La dovetti dissuadere bacchettandola sul groppone con una verga. Allora fuggì dal cortile per riunirsi alla fiumana degli altri quadrupedi sulla strada del ritorno.

La sera seguente, la bestia entrò ancora nel nostro cortile, questa volta scientemente, per chiedermi altro sale. L’accontentai, e poi fui costretto ancora ad usare il bastoncino per incamminarla sulla retta via. Il rito si ripetè per altre sere, sinché la Cecca m’informò che troppo sale avrebbe potuto nuocere all’animale e da allora, per qualche sera, dovetti dare solo vergate alla capra, per convincerla a cessare le sue visite, perché la baldoria era finita. L’animale non si vendicò, come avrebbe probabilmente fatto qualche ingrato essere umano al suo posto.

Con frequenza, e assenso materno, andavo nei campi con uno o l’altra dei nostri locatori a, "voltà el fen", come dicevano loro, cioè a rivoltare, con una forca di legno, l’erba stesa al sole nei prati, per affrettarne l’essiccazione. Non era un lavoro entusiasmante, ma siccome doveva essere svolto nel primo pomeriggio, mi affrancava dall’obbligo del riposino che, "per il mio bene", Mamma mi imponeva dopo il pranzo. Veramente non capivo perché, "per il mio bene", il dormire nella fresca stanza da letto, fosse equivalente al lavoro sotto il sole meridiano; e mi venne il sospetto che la mia genitrice mi volesse al sicuro, ma fuori dai piedi per quel tempo, soltanto a salvaguardia della sua sacrosanta digestione.

 


UN RODEO CON L’ASINO

A "voltà el fen" andava, qualche volta, il Pepp con l’asino, giacché, se il fieno era pronto, ne affardellava due grossi involti, che caricava, al ritorno, sul basto dell’animale. Nel viaggio di andata, quando glielo chiedevo, Pepp montava me sul ciuco, tenendone prudentemente la cavezza per tutto il percorso. In quei momenti, dall’alto dell’equino, mi ergevo compiaciuto come il generale di un monumento equestre, salvo l’avvertire un brivido serpeggiare lungo la schiena, quando il somaro subiva qualche scarto durante la marcia.

Un giorno, giunti al campo dove la Cecca già si trovava a lavorare, Pepp si fermò a parlare con la moglie, abbandonando un attimo la briglia. L’asino non attendeva altro: sorprendendo tutti, me compreso che lo cavalcavo, partì al galoppo per destinazione ignota. Sobbalzando come un cowboy al rodeo, mi abbrancai con tutte le forze al bordo del basto, scivolando or qua or là sui fianchi del somaro. Furono gli interminabili secondi di un breve tragitto. L’animale si fermò davanti al covone di fieno, che da lontano aveva visto, e tranquillo incominciò a brucare, non curandosi del sottoscritto che, ancora sbiancato, aveva in groppa. Pepp e Cecca accorsero e ridendo mi chiesero: "Te ghet avu la tremarella eh?". Replicai in milanese: "Chi... mi?.. Nooo!".

Con la Cecca, andavo spesso nell’orto, che si trovava di là dalla stalla, dopo il letamaio. C’era qualche albero da frutto, molta verdura e fiori. Io mentre aiutavo la contadina a innaffiare il coltivo rubacchiavo, sotto il suo occhio benevolo, fragole, ribes e lamponi. Immancabilmente, la buona donna, a fine lavoro, recideva un mazzo di fiori e me li dava per mia madre.

Una volta, vedendo la Cecca in cortile avviata al sottoportico, e pensando che andasse nell’orto, gridai a mia madre che si trovava in cucina: "Mamma, vado con la Cecca!" e mi affiancai alla donna la quale mi prese per mano, assentendo beffarda: "Si, si: ven con mi!". Arrivati allo slargo della stalla, la contadina si collocò nel bel mezzo, presso il tombino; si slacciò all’altezza della cintura una spilla da balia, allargò le gambe, e al di sotto del grembiule nero che scendeva fino alle sue caviglie, io vidi serpeggiare verso i buchi dello scarico un rigagnolo d’urina. Riallacciata la spilla, la donna mi riprese per mano e affatto seriosa mi annunciò tranquilla: "Adess tornemm indrée.". Deluso ed offeso, mi consolai pensando che le mucche erano più scostumate.


 

  LA FAMIGLIA FOA’

Nella nostra cascina era alloggiata anche la famiglia Foà, di origine ebrea, composta dalla mamma, vedova; dalle due figlie Elisa e Bruna, di 24 e 22 anni; e dal loro fratello quattordicenne, Aldo.

Mia madre, essendo di tendenza medio-borghese, fece presto amicizia con la signora Foà e mia sorella Renata, legò con le due ragazze, alle quali anch’io mi affezionai molto, per la dolcezza dei loro caratteri.

Ho due foto ricordo di quei rapporti, una che mi ritrae molto tranquillo accanto a Elisa. Questa signorina, rotondetta e modesta, aveva un particolare ascendente su di me. Con la sua serenità e la grande simpatia che mi sapeva dimostrare, sedava la vivacità della mia indole. Inoltre, essendo maestra elementare, presto aveva scoperto il mio tallone d’Achille, ovvero la grande sete di sapere: le era facile quindi, tenermi attento e serio con le sue spiegazioni ed i suoi racconti.

Il mio atteggiamento era affatto diverso con Bruna: una ragazza serafica, con una pazienza da Tobia, che le faceva tollerare ogni mia affettuosa provocazione. Con lei, sono immortalato nella seconda fotografia: lo scatto mi ha ripreso con un braccio appoggiato pesantemente sulla sua testa e una smorfia rivolta all’obbiettivo.

L’amicizia di Renata con Bruna continuò da allora per molti anni, anche dopo la guerra, nel corso della quale la famiglia Foà, visse a Milano sfuggendo avventurosamente alle disposizioni razziali in atto.


giomarkin@virgilio.it

 

 

Home page  |  L'autrice del sito  Le pagine del sito     

          | 

="2" face="Verdana" color="#FFFFFF">Nella nostra cascina era alloggiata anche la famiglia Foà, di origine ebrea, composta dalla mamma, vedova; dalle due figlie Elisa e Bruna, di 24 e 22 anni; e dal loro fratello quattordicenne, Aldo.

Mia madre, essendo di tendenza medio-borghese, fece presto amicizia con la signora Foà e mia sorella Renata, legò con le due ragazze, alle quali anch’io mi affezionai molto, per la dolcezza dei loro caratteri.

Ho due foto ricordo di quei rapporti, una che mi ritrae molto tranquillo accanto a Elisa. Questa signorina, rotondetta e modesta, aveva un particolare ascendente su di me. Con la sua serenità e la grande simpatia che mi sapeva dimostrare, sedava la vivacità della mia indole. Inoltre, essendo maestra elementare, presto aveva scoperto il mio tallone d’Achille, ovvero la grande sete di sapere: le era facile quindi, tenermi attento e serio con le sue spiegazioni ed i suoi racconti.

Il mio atteggiamento era affatto diverso con Bruna: una ragazza serafica, con una pazienza da Tobia, che le faceva tollerare ogni mia affettuosa provocazione. Con lei, sono immortalato nella seconda fotografia: lo scatto mi ha ripreso con un braccio appoggiato pesantemente sulla sua testa e una smorfia rivolta all’obbiettivo.

L’amicizia di Renata con Bruna continuò da allora per molti anni, anche dopo la guerra, nel corso della quale la famiglia Foà, visse a Milano sfuggendo avventurosamente alle disposizioni razziali in atto.


giomarkin@virgilio.it

 

 

Home page  |  L'autrice del sito  Le pagine del sito     

          |