Vecchio Giorgio 2 

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" Fascista per nascita"

CAPOSQUADRA ? A ME !  UN FIGLIO QUASI PREPOTENTE  LA FANFARA CHI MI VUOLE ? GIULIANO: DA BALILLA A PARTIGIANO

 

CAPOSQUADRA ? A ME !

Una sera, nella bacheca della Sede, lessi una circolare della "Federazione gruppi rionali fascisti di Milano e Provincia", che informava dell'istituzione di corsi, con frequenza bisettimanale, per Giovani Fascisti, aspiranti al grado di "Caposquadra". Come no? Eccomi qua! Ne parlai con
Torriani, il quale fu con me d'accordo, a condizione che concordassi con Roberto, le eventuali variazioni ai nostri turni di servizio, per consentirmi di essere libero, nelle sere in cui avrei dovuto frequentare le lezioni.

Roberto, presente in quanto di turno, si dichiarò disposto ai necessari cambi, e approfittò di avere la parola per chiedere: "Ehi! La sapete l'ultima su Farinacci?". Torriani intervenne subito:"Roberto, stai attento! Qui siamo in Sede!". Ma il nostro amico aveva deciso di raccontarcela, e abbassò la voce:

"Farinacci, che per la sua megalomania e... manina lunga è soprannominato "il Ras di Cremona", sta spadroneggiando nella città, con la sua fuoriserie, trascurando il rispetto di ogni regola stradale. Un vigile lo blocca ad un semaforo:

- Favorisca patente e libretto di circolazione.
- Ma voi non sapete chi sono io?
- Le chiedo i documenti, appunto per informarmi.
- Ma fatemi il piacere! Io sono Farinacci!.
- Per me signore, lei è un cittadino come tutti gli altri.
- Allora i documenti non ve li do.
- Allora prendo il numero di targa.
- Facciamola finita: questa è la patente e questo il libretto di circolazione.
- Bene: ora le debbo contestare l'avvenuta violazione di quel segnale di "Divieto di circolazione", nella strada da lei percorsa, poco fa, con la sua autovettura. Sono cinquanta lire di multa. Cosa decide: concilia?
- Guardate: oggi sono di luna buona, e vi do le cinquanta lire che mi chiedete, ma agente: sapete bene che questi sono soldi rubati.
- Signor Farinacci, io li accetto, perché non sono tenuto a chiederle, dove lei ha preso questi soldi.

Le lezioni del "Corso di caposquadra", erano tenute in via Vasari, nell'aula di non ricordo più quale edificio, forse una scuola. L'addestramento; che si svolgeva su argomenti militareschi, e su prestazioni di pronto soccorso; durò tre mesi, per un totale di 24 lezioni. Gli esami ebbero luogo una domenica mattina. Gli esaminatori erano: un sergente della MVSN (Milizia volontaria
sicurezza nazionale). e un medico, in abiti civili. Ad ogni esaminando venivano poste due domande per ogni materia. Quando toccò a me il sottufficiale mi chiese:

- Dimmi le parti principali del fucile '91.
- Cassa, canna, e meccanismo di caricamento e sparo.
- E quali sono le parti dell'otturatore?
- Fusto con manubrio e nocciola, percussore, e molla di 32 spirali e mezza, bottone zigrinato.
- Bene, puoi andare dall'altro esaminatore.

Avanti c'era il medico:

- Rispondi a questa domanda: se tu fossi in Africa, mangeresti una bella fetta di prosciutto crudo?
- No, perché nei paesi tropicali il maiale è facilmente affetto da un parassita, cioè un verme chiamato tenia, che può essere trasmesso all'uomo.
- Vedo che sei preparato.
- Potrei dire di più (e qui ricorsi ai ricordi scolastici). In quelle regioni l'affezione da tenia si cura con una pianta della famiglia delle rosacee, chiamata "cusso".
- Hai risposto ad abundantiam, puoi andare.

Un mese dopo sul braccio sinistro della mia sahariana, apparve il grado di Giovane Fascista Caposquadra: una V rovesciata giallorossa.


 

UN FIGLIO QUASI PREPOTENTE

Era passata appena una settimana, da quando ebbi la nomina a caposquadra, quando il Comandante Bruccoli, mi mandò a chiamare:

 "Ho visto che ti sei guadagnati i galloni di caposquadra, mi compiaccio. A proposito: ho un delicato incarico da affidarti. Ieri sera è venuta da me la madre di un nostro giovane fascista. E' vedova da poco e, piangendo, mi ha riferito che suo figlio, da quando è morto il padre, si comporta con lei con prepotenza: vuole sempre soldi, e minaccia di picchiarla se non glieli dà. Non è ammissibile, che un iscritto al nostro Partito, si comporti in questo modo: lo dobbiamo raddrizzare...". Si accende una sigaretta;poi,continua:
 "Tu domani sera, alle diciannove, vai in uniforme, al 54 di via Canonica, dalla famiglia Cattaneo, ordini al figlio della signora, Enrico, di mettersi in divisa da giovane fascista, e lo porti qui da me; con le buone o con le cattive. Ripeto con le buone o, se è necessario, con le cattive. Hai capito? Puoi andare!".

"Sì Comandante!.". Potevo dirgli di no? Non riuscivo nemmeno ad immaginare, se glielo avessi detto, quale sarebbe stata la sua reazione. Meglio preoccuparsi piuttosto, della reazione che, all'indomani, potrebbe avere il Cattaneo, quando mi vedrà. Mi confortava il vago sospetto che il ragazzo fosse un po' vigliaccone. E lo era, se aveva cominciato ad essere prepotente con sua
madre, dopo la morte del padre. In ogni caso non avevo scelte: dovevo andare.

La sera seguente, in divisa, con tanto di gradi di caposquadra, andai in via Canonica. Tesi l'orecchio alla porta dei Cattaneo: silenzio. Allora premetti il pulsante del campanello. Da come mi sentivo dentro, dovevo avere una faccia patibolare: forse più da condannato che da boia, comunque equivocabile.

Venne ad aprirmi il ragazzo: allampanato, smorto e pendente come la Torre di Pisa.Sembrava impaurito. Forse anche lo era, perché ebbi l' impressione che la madre gli avesse preannunciata la visita "dei fascisti". Aveva lo sguardo fisso: guardava dritto avanti a sé, come fosse allucinato, o sotto shock. Ciò mi diede coraggio e paura nel contempo. Quello era allucinato o sotto shock? Come avrebbe agito o reagito? Con voce calma gli dissi: "Sei tu Enrico Cattaneo?". 
Mantenendo il suo sguardo nel vuoto assentì. "Mettiti in divisa, perché devi venire con me al Gruppo.". Il ragazzo si mosse, senza rispondere, verso la sua camera per cambiarsi. Lo potevo controllare, giacché la porta era rimasta aperta. La madre, che io avevo salutato con un cordiale: "Buona sera, signora.", era seduta su una sedia e, con la testa tra le mani, ripeteva:"Signor, signor: el me fa dannà!". Sottovoce cercai di confortarla: "Non si disperi signora, vedrà, il nostro Comandante lo convincerà a moderarsi: suo figlio, non ha la faccia del cattivo ragazzo;
purtroppo il papà gli è mancato troppo presto.".

Intanto Enrico si era preparato. Salutai sua mamma e a lui ordinai: "Andiamo, e cerca di stare buono". Lui mi si affiancò come un agnellino, guardando sempre avanti. Imboccammo la vicina e interminabile via Paolo Sarpi. Ogni tanto lo osservavo di sottecchi: non mi sembrava meditasse alcunché. Ma dovevo essere pronto a tutto, e i pensieri correvano: "Se scappa, gli corro dietro: questo è certo; ma se corre più di me e non lo blocco: che mi direbbe Bruccoli" E se invece lo acchiappo e si rivolta? Be', meglio non pensarci: per il momento mi segue tranquillo.".

Giunti al Gruppo, bussai all'ufficio del Comandante: "Avanti!... Ah!, siete già qui?". Con Bruccoli, c'era anche un capitano in grigioverde e con camicia nera: non so di quale specialità: con tutte le divise che inventava Starace, ad ogni piè sospinto, anche noi del Partito, avevamo interrogativi da porci. Comunque mi parve che quell'ufficiale fosse estraneo alla questione del mio "arrestato".

Quando fummo, impalati sull'attenti, davanti alla sua scrivania, il Comandauot;. Nessuno di noi aveva il pastrano; non ricordo che fosse previsto per le
nostre uniformi; e la sahariana di orbace, che indossavamo, non ci proteggeva granché
dal gelo. Arrivammo quindi abbastanza intirizziti al negozio di cibi cotti, e i brividi, che
avevamo accumulato strada facendo, ben ci disponevano a gradire la famosa "scaldina".

Preparammo lo stomaco con un sottofondo di castagnaccio; poi Loreno ci servì, in
ciotola, un ramaiolo della tiepida "scaldina": una manteca il cui sapore, francamente; e non
poteva essere altro; era di vino e di castagna, con qualche anonimo aroma. A Roberto, un po'
deluso, scappò una frase, insolitamente nel suo dialetto: "Mo" dico bene: questa sa solo di
vino e di castagna! Boia d'un mond leder!". La critica non sfuggì al padrone di casa, che
replicò: "E che ti credevi? Ti dissi che scaldava, mica ch'era 'na delizia!". Io, come tra me,
mormorai: "Per il momento però, sono ancora infreddolito". Loreno, che evidentemente aveva
l'orecchio molto fino, si mise a ridere: "Aspetta, aspetta ancora un quarto d'ora, poi mi dirai.".
Non aveva finito di parlare, che già avvertii un attenuarsi del formicolio ai piedi, e caldo alle
guance, tanto che ritenni di scusarmi subito con lui: "Credo tu abbia ragione: mi sta arrivando
un po' di calore.". Gli altri due convennero: "E' vero! E' vero!". In breve, il caldo divenne
insopportabile e incominciammo a sudare, tanto che, pagato il conto, salutammo Lorenzo, il
quale ci rispose sogghignando: "Vedrete, vedrete, mica è ancora finita neh!". Uscimmo dal
negozio e, come di consueto, ci separammo subito.

Io, svoltai in via Giusti, dapprima cominciai a correre, quasi mi illudessi di lasciare
indietro il caldo; poi mi tolsi, sempre correndo, la sahariana e infine il sottostante pullover.
Quando giunsi alla fermata del tram, in via Montello, avevo arrotolato anche le maniche della
camicia nera. Sotto braccio, tenevo il resto del guardaroba.

 Il corso per musicanti, si svolgeva in piazzale Baiamonti, nello sesso ex Casello
daziario, che io già conoscevo, per avervi avuto il colloquio con un funzionario fascista, per la
mia iscrizione alla GIL. L'unico e ampio locale, dalle massicce pareti, ora sgomberato dagli
arredi del precedente ufficio, rappresentava l'ideale, per asservire le esercitazioni della fanfara,
senza recare disturbo al vicinato.

Le lezioni iniziarono con la conoscenza degli elementi di scrittura: rigo, note, croma,
biscroma, diesis, chiave di violino, ecc.. Poi attaccammo con i solfeggi. Il maestro, era uno
scattante maresciallo dei bersaglieri, sempre in uniforme, veneto, di nome Mamprin,
quarantaquattrenne, nero di capelli e di baffetti, non tanto alto, ma robusto. Col suo accento
veneto ci anticipò: "Ragazzi, immagino che abbiate molta premura di avere in mano gli
strumenti: ce li consegneranno fra una decina di giorni. Meglio così, perché intanto, senza
distrarvi, potrete prendere confidenza e pratica con il solfeggio. Adesso, ho qui l'elenco
dei vostri nomi: vi chiamerò, uno ad uno, per esaminare le vostre labbra, e assegnare a
ciascuno di voi, lo strumento più adatto.
  
Quando toccò il mio turno, sentenziò: "A te, darò il trombone tenore, sia per il taglio della tua,
bocca, sia perché sei alto e lo strumento è abbastanza ingombrante.". Ero un po' deluso: speravo
nella cornetta. In proposito, il Maresciallo, alla fine delle assegnazioni, ci regalò un fervorino:
"Sono vecchio del mestiere, lo so, lo so: tutti vorreste suonare la cornetta, ma ditemi: si può
mettere insieme una fanfara o una banda, con sole cornette" Per la concertazione sono
necessari strumenti diversi, e se ne manca uno, ci si accorge che non c'è. Quindi: ciascuno
di voi, con lo strumento assegnatogli, sarà indispensabile, per la migliore riuscita della nostra
fanfara.". Così consolati, la lezione terminò, e ritornammo alle nostre dimore.

La sera in cui gli ottoni ci furono distribuiti: belli, nuovi, lucidissimi, ci emozionammo
molto. E subito incominciamo a soffiarvi dentro, rendendoci conto che, così, non si ottenevano
risultati. Mamprin, dopo averci lasciato provare, ci spiegò il trucco: "Ragazzi: per innescare
una nota, dovete come sputare dentro lo strumento. Mi spiego: appoggiate il bocchino alle
labbra, tra le quali deve spuntare la vostra lingua, poi nel ritirare la lingua dovete
pronunciare un "mpuh!", così, vedete? e immediatamente soffiare: una nota allora uscirà.
L'inizio è come il togliersi un pelo dalla punta della lingua: "mpuh!". L'indicazione fu preziosa,
e un attimo dopo, una disordinata emissione di suoni, assordò il locale. A fine lezione, fummo
autorizzati a portare a casa i rispettivi strumenti, per poterci esercitare. Io chiesi a mamma, di
cucirmi un sacco di tela nera, per avvolgere il trombone durante i trasferimenti, e fui
accontentato con la solita premura.

Mamprin ci sapeva fare, e dopo qualche serata, dedicata all'esecuzione della scala
musicale con gli strumenti; utile anche per abituare le labbra ai bocchini; ci distribuì la
partitura della prima marcia miliare: "Flik Flok". Immaginarsi: è sempre stata il biglietto da
visita dei bersaglieri!

In capo a tre mesi, imparammo velocemente, e con più che sufficiente rendimento,
parecchie marce: "Giovinezza", "Fiamme nere", "All'armi", "Vincere", "Faccetta nera" e perfino,
la "Marcia trionfale dell' Aida", che non aveva niente a che fare, con la propaganda fascista,
ma che dava molta soddisfazione ai suoi esecutori. Frequentando i compagni di fanfara, mi
sorpresi nel rilevare, che la musica ci affratellava, trattavamo tra noi con cortesia,
comprensione e sincera amicizia, senza il minimo screzio. Stupendo!
 
E venne il giorno, della nostra prima uscita di servizio. Eravamo tutti in divisa e
abbastanza in apprensione. Mamprin, ci riempì di consigli e raccomandazioni: "Ragazzi,
non c'è peggiore brutta figura di quella di un complesso che non finisca l'esecuzione. Dunque:
quando avviene che, uno dopo l'altro, per confusione o dimenticanza della parte, vostri
compagni dovessero cessare di suonare; è indispensabile che quelli che non si sono smarriti,
continuino imperterriti. Ne fosse rimasto uno solo! Gli altri saranno in questo modo
incoraggiati a riprendere, e la faccia del concerto, si salva.".

Uscimmo dal Casello, e ci schierammo con i nostri ottoni, in direzione della via Ceresio.
Il Maresciallo, in testa e a fianco del plotone, ci diede l'ultima disposizione: "Attenzione,
adesso ci mettiamo in marcia, e al mio segnale, attacchiamo con "Flik Flok: dobbiamo arrivare
davanti alla Sede in corso di esecuzione.".

"Avanti... marsh... unò... due... unò... due... Via!". Mamprin, con la sua cornetta
scattò: "taa-ta-taan...". Qualcuno lo aveva seguito, altri no: non tutti eravamo preparati all'
attacco. Ma poi, nonostante l'inizio zoppicante, il "Flik Flok" andò a buon fine. Quel mattino di
domenica, passando davanti alle Sede, a piene note, vedemmo tutti i fascisti del gruppo,
davanti all'entrata e alle finestre dell'edificio guardarci compiaciuti. Il "Gruppo Mussolini", era il
primo in Milano ad avere una Fanfara. Procedendo poi per le vie del rione, suonammo quasi
tutto il nostro repertorio.

Alla fine, quando rientrammo, qualcuno si scusò per l'attacco imperfetto, con Mamprin,
il quale tagliò corto: "tutto bene! tutto è andato bene! Bravi ragazzi!".

Quando il Maresciallo, a fine corso se ne andò, ci mancò un grande sostegno morale,
ma il suo compito era ormai terminato. Non avendo sottomano, un professionista, il Comando
incaricò una camicia nera, invalido di guerra, ad assumere la direzione amministrativa della
Fanfara; ed a me, unico caposquadra tra i musicanti, lasciò la guida ad interim del complesso.
E siccome in Italia nulla è più permanente, del provvisorio, rimasi capobanda, sino alla mia
chiamata alle armi.

 Naturalmente quando, alle uscite della Fanfara, mi mettevo alla testa e a fianco del
plotone degli undici uomini, per dare il via alla musica, mi sentivo scoppiare dalla
soddisfazione, anche, e forse soprattutto, per il sottile piacere di essere impunemente, e a mio
ruzzo, autorizzato a rompere le scatole alla cittadinanza.

Molti anni dopo, per un doloroso trasporto, dovetti sedere a fianco del conducente di
un'autolettiga, volontario di una delle tante croci. Conoscendo ormai a sufficienza i miei simili,
mi sorprendeva la scoperta, che esistesse gente, tanto disposta a lavorare gratis per il suo
prossimo. Allora chiesi al conducente: "Ma chi glielo fa fare, di dedicarsi al volontariato su
questa autoambulanza?". Forse ero capitato male, perché mi rispose: "Vuol mettere? Il grande
piacere di guidare a centodieci all'ora, in piena città, di suonare senza tregua la sirena, e
strombazzare a gogo con il clacson, senza prendere multe?". Premiai la sua sincerità, con
diecimila lire di mancia, a fine corsa. 



CHI MI VUOLE ?




E’ una pagina che volentieri mi risparmierei di scrivere. 


Bruccoli, mi mandò a chiamare. Ormai; data la frequenza di rapporti con lui, e quale suo, quasi abituale, esecutore di ordini del mio settore; avevo deciso; vista anche quella che credevo fosse una certa sua benevolenza nei miei confronti; di chiedergli, alla prima occasione, un appoggio, per essere assunto in qualche ufficio del Partito. 


Il Comandante, quando doveva darmi un ordine antipatico; incominciava sempre, come si dice, con un’insaponata. Quella volta iniziò così: "Caro, mi compiaccio con te: ormai sei una colonna del nostro Gruppo: sempre presente alle adunate, ottimo il tuo rendimento in ufficio, Caposquadra e Capo della Fanfara: complimenti!... Dimmi, dimmi.". Mentre si esprimeva in questi termini, io, pensando che quello fosse il momento buono, avevo infatti, manifestata l’intenzione di aver qualcosa da comunicargli: "Comandante, purtroppo da parecchio tempo, sono disoccupato: non vi sarebbe possibile spendere una buona parola a mio favore, per un’ assunzione al Partito, magari in Federazione?". Bruccoli, cambiò espressione, ma non il tono cordiale: "Ah! Sei disoccupato? Benissimo! Tuo padre ti mantiene e tu lavori per noi!". Lapalissiano! Contenni la rabbia, ma non il pensiero: " Ingrato Bruccoli: che te possino!".


Lui tranquillamente continuò, riprendendo il suo discorso: "Volevo ordinarti di metterti d’accordo con Torriani, per convocare qui, da me, venerdì sera alle nove, sei dei più lavativi dei nostri giovani fascisti, tra quelli più strafottenti e che maggiormente hanno l’abitudine di disertare le nostre adunate. La strafottenza è una virtù, ma soltanto se è diretta verso il nemico. Quando arriveranno, li farete accomodare, qui vicino nel Salone delle Riunioni e tu li piantonerai, fino al mio arrivo. Riserverò loro una bella sorpresa.". 


Riferii a Torriani ed egli commentò: "Se ha detto così, quello non scherza: le cartoline d’invito le modifichiamo con la formula massima: ‘in caso di inadempienza ti verremo a prendere a casa’, e inoltre le consegneremo a mano alla famiglia." 


La formula "ti verremo a prendere a casa", e il recapito diretto della comunicazione, avevano avuto un effetto magico. Al venerdì successivo, puntuali alle nove, erano presenti tutti e sei i lavativi che, secondo gli ordini ricevuti, asserragliai nel salone. Dai loro discorsi capii che, forse, quelli erano fascisti più di tutti noi, perché il "me ne frego" lo applicavano, oltre che fuori, anche dentro il Partito.


Poco dopo arrivò, in divisa di squadrista come sempre, il Comandante, il quale, fatto capolino dove eravamo, mi ordinò: "Portameli nel mio ufficio, uno alla volta.". Per prevenire l’eventualità di discussioni, prudentemente anticipai ai miei camerati: "Vi accompagno di là secondo l’ordine alfabetico... Alberti...". Nel suo ufficio, il Comandante non era solo: due camicie nere stavano sedute ai fianchi della sua scrivania, completamente sgombra, sulla quale spiccava una bottiglia, di quelle basse e bombate che, di solito, sono usate per il vinsanto. La boccia, conteneva un liquido che aveva l’aspetto del miele, ed era fasciata con nastro tricolore, sulla striscia bianca del quale, stava scritto: "Chi mi vuole?". A fianco, un bicchierino da marsala invitava a servirsi.


Quando con il convenuto fui davanti alla scrivania, mi scostai di tre passi, e Bruccoli gli rivolse la parola: 


- "Tu sei iscritto al Partito?"

- "Sì."

- "Perché non vieni mai alle adunate?"

- "Ho degli impegni."

- "Di che tipo?"

- "Molti."

- "E non sai che l’iscrizione al partito, comporta il primo di tutti gli impegni? Quello di essere sempre presente alle adunate settimanali?"


Il ragazzo non rispose e il Comandante, che intanto si era alzato, e aveva riempito il bicchierino con il contenuto della bottiglia, riprese:- "Questo è olio di ricino: durante la Marcia su Roma, eravamo generosi e lo davamo ai nostri nemici, invece di fucilarli, come loro avrebbero fatto con noi. Bevi!". Il ragazzo esitò, con un gesto di ripulsa, e l’ordine questa volta fu replicato in tono perentorio.

- "Bevi! E’ un ordine!". l’imputato bevve con una smorfia di disgusto, e fu rilasciato.

- "Ora puoi andare, ma se vuoi evitare il bis, ti consiglio di essere presente alle adunate.".


Con gli altri, la recita non mutò di molto. Solo uno fu più resistente. Era entrato con aria spavalda ed espressione di sfida. Al primo "Bevi!", rispose con un reciso "No!". Al secondo, fu ancora più categorico: "No! Non bevo!". Allora il Comandante infuriato, fece il giro della scrivania, e alterato in viso, occhi contro occhi, gli ripeté urlando (mai visto!): "Ho detto bevi!". E quello bevve. Il coraggio ha diversi livelli!.


I padroni, considerano tanto poco i loro servitori, che spesso ne ignorano la presenza. Così a me capitò di essere lì, quando il Comandante, discorrendo con un altro ufficiale in camicia nera, gli confidò: "Pensavamo, di rendere più disgustoso il sapore dell’olio di ricino, miscelandolo con quello di fegato di merluzzo; ma il medico ci ha sconsigliati, affermando che potrebbero verificarsi casi di peritonite, nei soggetti che ingerissero una tale mistura.".


Da questo discorso trassi, la conclusione che forse Bruccoli non era l’ideatore unico quel tipo di punizione. Seppi poi che qualcuno in alto, messo al corrente di questa iniziativa, l’aveva intelligentemente deprecata, con la conseguenza che la famigerata bottiglia tricolore, sparì per sempre dalla scrivania del Comandante. 


Pensando alla punizione che era stata inflitta ai miei camerati, cercai di riordinare le idee. Premesso che l’Italia aveva un regime totalitario, instaurato dal fascismo, chi ne dissentiva avrebbe dovuto non iscriversi al PNF, e ad accettarne le relative sofferenze come molti (pochi) facevano. Ma chiedere l’iscrizione al Partito, per godere di tutti, che non erano poi tanti, i benefici che la tessera comportava, per poi rifuggire dagli obblighi relativi, mi sembrava cosa proprio da furbini.


Subito dopo però, riflettendo sul mio caso, mi diedi del babbeo; giacché avrei potuto conservarmi onorevolmente la considerazione del Partito presenziando, semplicemente e soltanto, alle adunate settimanali. Ma io no: soprammercato, avevo accettato anche di offrire lavoro volontario, come si dice, per la Causa; di aumentare poi spontaneamente le mie responsabilità conseguendo il grado di Caposquadra, e, divenendo infine anche un Trombone della Fanfara. Perché mai questo mio encomiabile comportamento? La risposta me la diedi anche allora: pensavo che quello fosse il mio dovere. Per quello stesso principio, molte camicie nere, nei tempi successivi, per volontà o per destino, morirono. 


Riflessioni. Ma il Partito perché usava mezzi coercitivi, per portare alla ragione i disubbidienti? Secondo me, sarebbe bastato ammonire questi indisciplinati: "Se tieni alla tessera, frequenta le adunate, se non rispetterai gli impegni che ti sei assunto, ti radieremo dai ranghi.". Però una ragione, forse, c’era, in quanto chi entra a far parte di un’organizzazione autoritaria, di qualsiasi genere: politica, religiosa, criminale o comunque settaria, difficilmente ne può uscire impunito. Il PNF, inoltre, aveva interesse a possedere le prove, per documentare al mondo, che la stragrande maggioranza degli italiani erano fascisti.


Quanto ai benefici conseguenti all’appartenenza al Partito, ho le mie riserve sul fatto che il gioco valesse la candela. Correva voce che molti fascisti furono invitati in sede di Partito, anno 1935, per sentirsi dire, che erano stati iscritti nelle liste dei volontari per la "Campagna d’Africa" (guerra all’Abissinia). Alle loro timide rimostranze: "Come? Ma io non ho presentato nessuna domanda per partire volontario", si sentivano rispondere: "Sei fascista? E allora sei volontario." 


Il PNF, questo metodo non lo usava per la propria "nomenclatura", non era necessario: i gerarchi ed i loro figli, erano i primi ad accorrere ad ogni campagna bellica per avere un incarico: chi per convinzione, chi per dovere, chi per ostentare il proprio eroismo, chi per ambizione, chi per aumentare il numero delle proprie medaglie. Qualche esempio? Balbo, Ciano, Starace, Muti, Bottai, e molti altri; compresi gli stessi figli del Duce: due bravi e modesti ragazzi, Bruno e Vittorio: piloti militari. Bruno poi, lasciò la propria vita ai comandi di un bombardiere in fase di decollo.


Il Fascismo, usava ogni possibile mezzo di propaganda per aumentare il numero dei propri iscritti, ma nei confronti di chi non era aderente non prendeva misure punitive
; salvo che non si manifestasse come provocatore; e quindi persona politicamente sospetta. Quando sfilavano cortei commemorativi, con insegne, bandiere, gagliardetti, ed altro, la folla che vi assisteva non era tenuta a salutare romanamente. Però poteva essere ritenuto un gesto offensivo, che gli uomini non si togliessero il cappello: e chi così si comportava, magari anche per semplice, ma sospetta, dimenticanza; arrischiava di vederselo volare dalla testa, per l’azione di qualche zelante fascista, ma senz’altra negativa conseguenza. 


Dichiarata provocazione invece, sarebbe stata, in quelle condizioni, il tendere il braccio con pugno chiuso nel saluto comunista. Allora qualche cazzotto sarebbe potuto volare, con il relativo intervento dell’OVRA, per accertamenti.


Credo che oggi, in tempi dichiarati sicuramente democratici, non di meno accadrebbe ad un incosciente, il quale, durante un corteo della "Resistenza" o, peggio, di certi centri sociali; osasse alzare la mano nel saluto romano: stesso trattamento da parte dei dimostranti, e indagini successive della DIGOS.





GIULIANO: DA BALILLA A PARTIGIANO



Ormai, in casa mia nessuno, in vista dell’estate, parlava più di andare al mare o in montagna; al massimo in Luglio e in Agosto, la nostra famiglia passava qualche domenica in gita, con un percorso in treno fino a Como, e poi un’escursione in battello, sul lago, fino a Bellagio. Oppure si andava a Stresa, sul Lago Maggiore, con visita alla Isole Borromee o, in alternativa, arrivando in funivia, sino in cima al Monte Mottarone (1491 m.).

Papà e Renata, approfittavano talvolta, dei viaggi a prezzi stracciati, con i famosi "Treni popolari"; istituiti dal Fascismo, e con molto successo; per agevolare agli italiani, le visite a località turistiche come Roma, Venezia, Firenze, ecc.. Questi diporti, della durata normale di un fine settimana, comportavano il sacrificio di nottate intere passate in treno, in andata e anche al ritorno. Ma per molti avevano un loro fascino: l’atmosfera era allegra, si stringevano nuove amicizie e i sentimenti erano di fratellanza e di reciproco aiuto, a sollievo dei disagi.

Personalmente non amavo i treni popolari, per me quello svago non ripagava degli impliciti sacrifici e, quando i miei parenti ne approfittavano, io me ne andavo solo solo, come in altre occasioni, alla piscina del Lido di Milano, in piazzale Lotto. Fu lì che, tra gli assidui, conobbi un ragazzino, di dodici anni, anche lui sempre senza compagni. Si chiamava Giuliano e finii per considerarlo quasi come un fratellino. Forse, inconsciamente, sentivo per lui quel sentimento d’affetto, che avevo desiderato e non avuto, nella mia prima infanzia, da mio fratello Livio, il quale, in fatto di calore famigliare, era per natura poco sensibile. Quando seppi che Giuliano, era un Balilla e che, come tale dipendeva dal mio stesso Gruppo, mi interessai a lui più da vicino, e, com’era prevedibile, spesso ci si incontrava casualmente anche nella sede del Partito.

Frequentandolo, seppi molto sul suo conto. Suo padre lavorava a Sesto San Giovanni, come meccanico della Marelli. La madre era casalinga; aveva anche una sorella, sedicenne, che lavorava come operaia in un laboratorio. Il ragazzo era stato più volte rimandato alle elementari ed ora, in prima media, marinava frequentemente la scuola. A casa la madre, sola durante il giorno, non aveva la forza di farsi obbedire da questo ragazzo, il quale andava e veniva a proprio piacimento.

Giuliano, benché la sua famiglia vivesse molto modestamente, non era mai senza soldi, e non mi faceva mistero di come se li procurava. Così giovane, aveva già il bernoccolo del commercio e degli affari. Come? Frequentava le discariche e, da immondizie e materiali di risulta, ricuperava: ferro, da rottami; piombo, da spezzoni di tubi degli scarichi idraulici; ottone dai rubinetti di scarto; rame, da fili elettrici di vecchi impianti. Ma non era tutto qui. Per meglio valorizzare la propria merce, accendeva un fuoco, nello stesso luogo di ritrovamento del materiale e, in vecchie latte vuote, che lì certamente non mancavano, fondeva i rifiuti di piombo per ridurne il volume. Con altra operazione, gettava sul falò i fili elettrici, per eliminarne la copertura isolante e salvare solo il rame; ed infine ripuliva e raggruppava per qualità gli oggetti ritrovati. Finita l’opera, portava tutta questa mercanzia, da quei rigattieri che avevano esposto il cartello: "Compro metalli usati"; con l’elenco dei prezzi al chilo offerti per ogni tipo di metallo. Naturalmente stava attento anche alla pesatura.

Quando incassava il frutto di questo suo lavoro, Giuliano sospendeva ogni attività alle discariche, in quanto si dedicava, sin che ce n’era, a spendere il suo gruzzolo, comprandosi dolci, giocattoli, oggetti vari, e frequentando i cinema: insomma soddisfacendo ogni suo desiderio. Solo quando aveva sperperato completamente il piccolo capitale, ritornava alle discariche. In famiglia, non versava una lira, ma per altro teneva accuratamente nascosta l’ampiezza della sua attività, per evitare rimbrotti. Io inutilmente tentavo di indurlo, almeno, ad accantonare una parte di tanto denaro.

Dopo qualche tempo, ritenni doveroso farmi conoscere dalla sua famiglia, che di cognome si chiamava Fiori, e il pomeriggio di una domenica, lo accompagnai a casa. Una dimora alquanto modesta, e disadorna. Fui accolto con cortesia, ma anche direi con un certo imbarazzo, forse dovuto al disagio di dover ricevere un estraneo, in una casa tanto dimessa.

Quella miseria, sopportata con decoro, mi impressionò, e non avendo io mezzi per meglio intervenire ritenni, almeno, di segnalarla in Sede, affinché la famiglia Fiori, fosse inclusa nell’elenco di coloro che allora si chiamavano, fuori metafora: "bisognosi". Il Gruppo infatti, aveva anche una organizzazione, che si occupava di stimolare aziende e commercianti della zona, ad offrire al Partito generi alimentari, di vestiario, giocattoli e altro, da destinare alla beneficenza. Questa merce, era poi catalogata e ridistribuita in pacchi che, in varie occasioni e specialmente in quella della "Befana Fascista", venivano consegnati ai più indigenti.

Da allora, quando passavo da via Canonica non mancavo di far visita ai Fiori. Una volta, che con me avevo portato la mia "Bessa con telemetro" della Woigtländer, offersi alla giovane figlia, di scattarle una foto nella vicina piazza. La ragazza accettò, ma, con mia sorpresa, le si accodò la diffidente madre. Giacché il mio era stato un puro e sincero atto di cortesia, non diedi peso, in quel momento, alla presenza di quella guardia del corpo. La giovane era bellina, ma troppo ignorante e scialba per colpire la mia fantasia.

Qualche tempo dopo, a casa, nella mia camera, stavo studiando radiotecnica, quando udii suonare il campanello. Non mi scomodai, perché era rituale che fosse mia sorella ad aprire la porta d’entrata. Sentii parlare sommessamente e capii che il nuovo venuto si era fatto ricevere dai miei genitori, i quali, dopo pranzo, si erano attardati nel soggiorno. Quando, dopo una buona mezz’ora, il visitatore si accomiatò, le voci si alzarono, come normalmente avviene per i saluti, al termine di una conversazione; e a me parve di riconoscere, dalle parole dell’estraneo, la mamma di Giuliano. Incuriosito avanzai nell’anticamera per accertarmene, ed ebbi giusto il tempo di vedere proprio la signora Fiori che, in quell’attimo, stava uscendo da casa nostra. Il fatto mi infastidì, che aveva da dire quella donna alla mia famiglia?

I miei genitori, mi diedero una spiegazione che non poteva convincermi: "La signora, voleva soltanto conoscere la famiglia dell’amico del suo Giuliano; e loro l’avevano rassicurata, che io ero un bravo ragazzo.". Mi chiesi: e allora, perché la signora non mi aveva preavvisato, della sua intenzione di conoscere la mia famiglia? E allora perché io ero stato escluso dal loro parlottare a tre? Arrivai, per deduzione, ad un sospetto: Giuliano, portava a casa propria i giocattoli e gli altri oggetti, che acquistava con i guadagni delle discariche, ed io sapevo che i suoi genitori si chiedevano, dove mai trovasse tanti soldi. Poi apparve in famiglia il sottoscritto, di parecchi anni più anziano del ragazzo: vuoi vedere che è il suo amico a dargli tanto denaro? E se così è: in compenso di cosa? 

Naturalmente la mia, era soltanto una seccante ipotesi, che volli accantonare. Non si può giudicare, soltanto in base a congetture o sospetti. Per quanto si riferisce a Giuliano poi: più lo frequentavo e più mi deludeva: finii per ritenerlo un incorreggibile ragazzo, caparbio ed egoista. 

Qualche tempo dopo, partendo per il servizio militare, non mancai di salutare per cortesia i Fiori. Già era in corso il secondo conflitto mondiale, poi venne la resa dell’Italia agli Alleati, ed infine la guerra civile tra partigiani e fascisti della Repubblica Sociale Italiana.

Nel 1945, dopo la fine della guerra, mi incuriosì l’idea di rintracciare Giuliano. La sua casa di via Canonica, era stata distrutta dai bombardamenti; però gente del luogo, mi informò che i Fiori si erano trasferiti nella vicina via Fioravanti. Lì, in un appartamento che, per desolazione, nulla aveva da invidiare a quello che avevano abitato in via Canonica; trovai la signora, la quale, dopo la sua sorpresa di rivedermi e i saluti di circostanza, m’informò: che il marito era morto, e che sua figlia, si era sposata. Giuliano, quel giorno era assente per un viaggio d’affari in Germania. Il ragazzo, aveva acquistato un negozio di parti meccaniche e, in particolare, di cuscinetti a rulli e a sfere, e gli affari gli andavano bene. La mamma lo sostituiva in bottega, durante le sue assenze. Promisi alla signora Fiori, che sarei ritornato in altra occasione, per rivedere suo figlio. Ebbi l’impressione che la donna fosse a disagio, come la prima volta che la vidi nella sua casa di via Canonica.

Un paio di mesi dopo, ritornai in via Fioravanti e trovai Giuliano. Ormai, aveva diciannove anni, e quindi era quasi un uomo. Mi informò, con una boria che non gli riconoscevo, che aveva comperato quel negozio, ma che lui vi lavorava soltanto il tempo necessario per accumulare un po’ di denaro, e quando lo aveva e fin che ne aveva, se ne andava a divertirsi in giro per l’Europa: Francia, Olanda, Germania. In questo lo riconobbi in pieno.

Cambiando discorso, Giuliano mi informò di essere stato, durante la guerra, partigiano comunista, e di aver anche partecipato ad azioni di guerriglia. Non si peritò di dirmi che mi riteneva morto, tra i fascisti, durante la guerra civile. Poi, guardandomi in modo un po’ ambiguo, mi dichiarò, col suo italiano della Crusca: "Sai, quando facevamo i rastrellamenti col mitra in mano, ammazzando i fascisti, mi chiedevo che cosa facevo, se ti trovavo di fronte: dovevo spararti o no?". 

Avrei dovuto ringraziarlo, per essersi posto almeno il dilemma. Rimase molto deluso, quando l’informai, con una punta di sadismo: "Vedi Giuliano: a sei anni ho giurato per il Duce, a venti per il Re. L’ 8 settembre 1943, alla capitolazione dell’Italia, ero militare in Aeronautica, e mi ritrovai in caserma, con altri commilitoni, senza ufficiali che mi dessero ordini. Il Re, se ne era fuggito a Brindisi, col suo Stato maggiore; e Mussolini era prigioniero al Gran Sasso. A Milano comandavano i tedeschi. Lasciato così, senza ordini di coloro per i quali avevo giurato, sono finito, dopo molte peripezie in Svizzera, come rifugiato militare. E sono contento di non aver ammazzato nessuno. E’ una storia lunga, che prima o poi dovrò ben scrivere."

Lo salutai per sempre. Sul tram che mi riportava a casa, improvvisamente, nella mia scatola cranica si accese una lampada alogena da 500 watt: "Urca! Come ha fatto Giuliano, sempre senza soldi, a comperarsi una bottega? Mi sono dimenticato di chiedergli se, per caso, non l’avesse avuta in eredità, durante i suoi rastrellamenti, da un fascista, .". 



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stato, durante la guerra, partigiano comunista, e di aver anche partecipato ad azioni di guerriglia. Non si peritò di dirmi che mi riteneva morto, tra i fascisti, durante la guerra civile. Poi, guardandomi in modo un po’ ambiguo, mi dichiarò, col suo italiano della Crusca: "Sai, quando facevamo i rastrellamenti col mitra in mano, ammazzando i fascisti, mi chiedevo che cosa facevo, se ti trovavo di fronte: dovevo spararti o no?". 

Avrei dovuto ringraziarlo, per essersi posto almeno il dilemma. Rimase molto deluso, quando l’informai, con una punta di sadismo: "Vedi Giuliano: a sei anni ho giurato per il Duce, a venti per il Re. L’ 8 settembre 1943, alla capitolazione dell’Italia, ero militare in Aeronautica, e mi ritrovai in caserma, con altri commilitoni, senza ufficiali che mi dessero ordini. Il Re, se ne era fuggito a Brindisi, col suo Stato maggiore; e Mussolini era prigioniero al Gran Sasso. A Milano comandavano i tedeschi. Lasciato così, senza ordini di coloro per i quali avevo giurato, sono finito, dopo molte peripezie in Svizzera, come rifugiato militare. E sono contento di non aver ammazzato nessuno. E’ una storia lunga, che prima o poi dovrò ben scrivere."

Lo salutai per sempre. Sul tram che mi riportava a casa, improvvisamente, nella mia scatola cranica si accese una lampada alogena da 500 watt: "Urca! Come ha fatto Giuliano, sempre senza soldi, a comperarsi una bottega? Mi sono dimenticato di chiedergli se, per caso, non l’avesse avuta in eredità, durante i suoi rastrellamenti, da un fascista, .". 



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