Callimaco.Roberto 1-2-3-4

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TEMPESTA a TINDARI COME L'ALBA MUORE SULL'ACQUA BASSORILIEVO D'ORIENTE SOLITUDINE RICORDI di SERE AUTUNNALI NEL BOSCO ARMONIA di CONTRASTI NATALE, d’altro SCULTURA
A PIEDI NUDI sulle ORME di SPOON RIVER San Paolo entro le mura CONSUMARSI di PAGINE AVORIO RISVEGLIO TRA I COLLI Quali auguri RAMESH è il tuo nome Piano sesto, senza ascensore ROTAIE SENZA DESTINO CARNELAVE A MAIOLO
IL RITORNO IL SOLE QUI A MACALLE' L'ULTIMO RIPOSO DELLAVVENTORE SASSI PARVENZE DI DONNA IN MORTE DI UN SALICE L'ULTIMA DIVISA NAPULE' ANNETTA OGNI SCURORE NON PRETENDERE MAZZI DI FIORI
DISTESA SUL NUDO TAGLIERE GIOVANNA D'ARCO ANNUVOLANDO CHIARORI INSEGUENDO PRIMAVERILI SOGNI LA ROSA DEL DESERTO MERGO, PRIMA DEL GIORNO IN FEBBRAIO IL CUORE ASCOLTO UN UOMO COSA RESTA DI ME
NODI DOVE L'EDERA PIU' NON CRESCE SENTIERI BAGLIORI D'ORDINARIA PRESENZA ALA FERITA FUGHE

 

 

 

 

 
Mi ripugna il breve sapore
di finta follia del carnevale.
E’ già greve che l’alba di sempre
mi punga coi primi riflessi
d’apostrofi attraverso imposte
e m’accenti d’acchito il presente.

Senza meta, appena fa chiaro
filo incontro a sfumate cortine
dal carnevale cerco un riparo.
Da mattina a sera
ciondolo tra ori di pagliai
e fruste lucide di salci
sulle schiene nere di rupi
che hanno basto
di rocche e manieri
piovuti dal cielo.

Il prato si beve rumore di passi
e maschere di neve disciolta.
Risa d’Arlecchini lontani
stingono la mia ferma ragione,
un’eco di silenzio
che batte al pensiero
mi segue, invisibile amica.
Le parlo, e sono solo
un po’ di follia che non guasta
il mio carnevale a Majolo.
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 
Non muore mai il sole qui a Macallè
è la caldaia delle terra e noi legna da ardervi .
Ora colgo la sua fuggevole assenza
il sonno mi raggiungerà presto
calmerà il tramonto sfiorandomi la fronte.

Vorrei sognare senza essere stanco
con pupille di brace e ghiaccio
dimenticare i pensieri di ieri, oggi
del domani che non tarderà a deludermi.

Sogno montagne vanigliate
cascate spumose d’aranciate
di marzapane i frutti pendono
su prati caramellati di fiori canditi;
odori e sapori che mai ho conosciuto.

Quante meraviglie vorrei raccontarti madre,
aspetta a svegliarmi, regalami ancora
un lembo di quest’estrema felicità.
Ma già il torrido sole essicca fantasie
alto dissemina l’amaro da raccogliere.

Lo sguardo oramai declina oltre il sogno
l’aria si torce sudando su noi tutti
ma di rado la pioggia bagna i gonfi ventri,
un’invisibile giorno, sgombro di fame e sete
persuaderà la vita che l’ultimo istante
sarà pur sempre solo d’allegria.
 
 

 

 

 

 

 
 
 

Transito con mano fugace
sulla cova di uova di pietra
nel friabile incombere della falesia
attorcendomi al greto che l’inverno
ha incartato con umore gelivo.

M’alzo occhieggiandomi i piedi,
il giocare discreto dell’onda
arriva vibrato dal salso affannare,
la cresta in trepida ghiaia argina
l'aspra increspatura all’angolo
della tua bocca che solo all'alba
hai lasciato esitasse alla deriva.

Raccolgo pensieri tra i sassi rotondi
inerte l’angoscia fischia lontano
una barca rientra, niente scie di gabbiani
sul molo hai disposto il tuo crine
per ormeggiare le mie incomode noie

Il grigiore d’un fremito d’ore è stritolato
dalle spire d’un tramonto incolore
resterò scultura sguarnita dalla fretta
cercando pensieri levigati e chiusi
come quei sassi in una curva perfetta.



 
 
 
 

 

Sosta il meditare su lingue di giardino
così lontane dagli indugi di allora.
Tra le vanità d’aghifoglie e petali
il salice stava silente, curvo di cavità
mestamente nello spigolo più riposto.
Pioggia e sole se ne dimenticarono.

Due o tre cani vi orinavano per non tornare
altri scansavano stizziti le sue lance appassite,
nessuno si fermava sotto il grande ombrello
nell’ombra gialla e triste d’un vecchio ritratto.
Solo una gazza storna beccava tra le spighe inferme.

Linfa e sangue ci univano senza più esposti timori,
nelle pendule pause fra dischiusi balconi
una rossastra corteccia era come mite carezza.
Il primigenio lobo mi hanno amputato
quell'indolente giorno di marzo quando
giaceva molle su sponde di terra, esangue.
Un cuore trafitto posai tra le consunte radici.

Ora se ridesto lo sguardo, un alto pioppo
imbianca speranze di nuove primavere,
uno zerbino in vimini del caro salice resterà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NAPULE ANNETTA OGNI SCURORE

(tentativo di dialetto napoletano)

 

 

 

Sulla palizzata n’ombra bizzarra,
dalla scalinatella ‘ragonese
chiagne a smorzà lampioni,
con stizze fesse d’ammore
un pulcinella ncellicciato
scola mezza luna bianca e lucente
e sta come na saccoccia scippata.

Pe’ scurdà l’core infranto
se pappa na guastella a libretto,
risciata na canzone dall’alto
e nu mandulino stramazza note
tra respiri di tecule arrecchiate.

Dalla funicolare allora scenno
la baia è un ciurciello co na perna
dalla marina piglia oro e argento
e berluccichii iettà in faccia a me.

Tutto addeventa musica zingara
favilla in capuzzella o’ Vesuvio
mentre spiezie, grida e mani
sento ‘ncopp e spalle
e m‘ncuccia na paturnia priata,
ora è nott...è ora d’addurmirse,
Napule..annetta ogni scurore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DISTESA SUL NUDO TAGLIERE

 

Distesa sul nudo tagliere
esausta, fissi il cupo soffitto,
sarai la prossima vittima
ultima di milioni attendi
il sibilare della mannaia.
Se avessi fogli bianchi e forza
scriveresti ancora per narrare
di come intorno allo stelo della bontà
siano germinati i semi dell’odio,
ti hanno straziato i giovani desideri
non la penna che serri nel pugno.
Niente più boccioli di primule
per la povera Margot, se n’è andata
timida sino all’ultimo soffio,
sorridendo tu le stringesti la mano.
Anna, chi rimarrà accanto a te?
Nessun conforto di madre e padre
solo ricordi d’un'Olanda sfiorita.

Anna, chiudi gli occhi ora, ricorda
la soffitta lambita dall’Amstel
da fragranze di spezie invasa.
Sorgeva l’amore nel tuo cuore
ed il solo timore era tua madre.
Stretti in pochi metri quadrati,
la speranza creava confusi spazi
tra inezie e passaggi di stagione.
Poi Il disumano che fuori impazzava
vi sorprese nel tacito abbraccio..ricordi?
Adesso la paura è passata
hai ritrovato la gioia,
un istante e ti unirai a loro
col tuo liso abito a righe.
Sussurra i loro nomi perduti
mentre chiudi gli occhi Anna,
rimani lì, distesa
sul legno storto dell’umanità
da cui non si ricaveranno cose dritte.

 

 

Ad Anna Frank per il giorno della memoria 27/01/05

 

 

 

 

 

 

ANNUVOLANDO CHIARORI

 

La tua voce come perla
annuvola e schiarisce cieli
nel giorno che mai avrà fine.
Quel che resta è altra polvere,
la chiudi con le tue smorfie
dentro uno scrigno avorio
che aprirai solo quando alla finestra
pettirossi reclameranno croste di pane.

Hai tentato a scandire il mio nome
tra pascoli inondati dal verde fremente,
ci dividevano esili pareti di garza
la tua presenza intuivo ascoltando
il fruscio di gambe accavallate.

Non sapevi ballare sulle punte
preferivi saltare scalza nelle pozze
dopo un piovasco settembrino
e distillare le poche gocce rimaste
nettare insapore tra le mie labbra.

Srotola la tua treccia, ora
legami a coda i miei folti capelli
a girare sulle pale del mulino andremo
fra il vento caldo di fatiche serali,
nel camino arderemo frutti acerbi

 

 

 

 

 

 

 

LA ROSA DEL DESERTO

(in occasione del rapimento di Giuliana Sgrena)

 

Tra le lettere del tuo giornale
ho scelto parole di tolleranza
che ho racchiuso nel portafogli
al posto di filigrane sfilacciate.

Le tue foto sfumano nel dolore
di ospedali in bianco e nero,
il sangue come macchia scura
sul fondo d’un obiettivo cieco.

Con scatti e parole sovrapposte
volevi far fiorire la rosa del deserto
e che tutto questo orrore altro
non è che sporcare l’incontaminato.

Hai saputo camminare, Giuliana
tra le claudicanti coscienze
e le urla di chi non vuol gridare,
solo l'altrui viltà ti ha falciata.

La sabbia si beva pure le tue lacrime
mentre inginocchiata al mondo
doni vene e pazienze trascorse,
forse chi ama la pace saprà ascoltare.

Giuliana,
andremo ancora a mangiare
…il risotto giallo

 

 

 

 

 

IN FEBBRAIO IL CUORE ASCOLTO'

 

Febbraio in giacca scura mi scortò
viottoli vestiti da olmi e corolle chine
tra marmoree onde, care rimembranze
nelle estati che si dileguarono.
 

Sulla fredda epigrafe
il mio tracimare pietoso
ascoltò il rinfoltirsi di trifogli
sincronia di rimpianti
nell’incantesimo di tutte le morti.

Era troppo agitata la tua anima
per potermi parlare dei giunchi
che pencolavano dalle frasche
ma sentii tramite impudenti mani
il tremolio carezzevole della torba.

Da allora ho un orecchio sulla bocca del cuore
.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COSA RESTA DI ME

 

Nel pascere una mente ancora sveglia

umetto le tante rughe sulla fronte
e come seguendo una bava di lumaca
rinvenirò il trafelare dei miei pezzi sparsi.

Il nitore degli occhi è rimasto
sull’antica altalena ad osservare
aratri salire improbabili pendii
e vezzi di provocanti colline.

Ho abbandonato sdrucite mani
nell’apoteosi di un qualcuno
che credevo abile nell’usare mulete
ma di pavidi guanti nascostamente le vestì.

Subito dopo, le gambe riposi
nel guardaroba dell’apatia
più nessuno spettro mi braccava
in sala d’attesa trovai sedie sgombre.

Ricordo del mio cervello
che sempre mi parlava, alla nausea
dava cagioni e nulla d’intentato,
lo lasciai ad irretire opere
in un museo d’arte moderna.

Il cuore se ne andò in un anelito
nuotando tra i gavitelli della baia
stregato dall’uggiolio d’una tortora ferita
di cui solo il suo sangue ritrovò.

Vi rimpiazzerò amate schegge
di un corpo oramai sbranato,
solo del cuore in un castone
conservo come diaspro
il rosso più temprato
e dell’amore ho fatto effige
per assecondare il poco che resta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SENTIERI

Di foschia e neve
si nutrono i viaggi
quando superato il passo
i cardi tramutano le strade
in sentieri senza meta.

 

 
ALA FERITA

Con una sola ala
volo contro il vento
arriverò alla scogliera
di isole innominate
e lì sarà la mia cura.

 

 


che il sogno illuminerà,
ancora credo nel perdono.

Ma i passi vicini
rintoccano grevi
rantolano gli ultimi pensieri
dei muscoli non so che farne
pochi battiti ancora cuore mio
e delle nostre colpe sapremo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARVENZE DI DONNA

 

Sappi che conserva ancora l’abito scuro
con lo spacco sino all’inguine,
tuttora custodisce nella scarpiera
quei vertiginosi tacchi di rossa vernice,
mostra persino il nutrito decolté
a chi non pensa di aver sbagliato porta.

Sarà per il trucco pesante
che ad ogni pioggia rientra col viso scolato
e sarà per questa parrucca esausta
che più nessuno la bacia sulla fronte
o per l'ora indolente che si divincola
tra tutti gli appuntamenti perduti.

Vorrebbe arrampicarsi sulle guglie
alte per sfuggire agli occhi torvi
avvolgersi calda nel suo letto
sola, placidamente a dormire
da qui alla prossima vendemmia
quando le vie profumeranno di mosto.

Non sono altro che parvenze di donna
smarrite nel fondo d’una buca di biliardo,
parvenze che stancano al mattino
l’acqua fresca del risveglio, e la sera
il velato tocco di autoreggenti nere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'ULTIMA DIVISA

 

 

Ieri
avevi pensato di spedire a casa la divisa,
nel taschino piegato un biglietto:
“Cara, stirala e riponila senza canfora
la indosserò per la prossima cerimonia”.

Oggi
ti sei vestito solo di bianca bandiera
nella notte spuntata all’improvviso,
quel colore riflette troppo
il calore che il tuo petto emana.
Non si può credere
al serpeggiare della tensione,
gli occhi, se vogliono
possono vedere nel mezzo del buio
troppe menti offuscate dagli spari
chi non imbraccia armi si rivelerà nemico.

Domani,
arriverai con un po' di ritardo,
mai sapremo perché una vita si può schiacciare
come una formica che corre sull’incudine.
“cara, riprendi la mia divisa
aiutami a vestirmi per l’ultimo lavacro”.
 

Un pensiero per Nicola Calidari, ucciso durante la liberazione di G.Sgrena. 04/03/05

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NON PRETENDERE MAZZI DI FIORI

 

E’ passata la stagione
per raccontare di amori e lacrime
distesa su di un verde prato,
non è più tempo d’aspettare inerme
sbirciando dall’imposta socchiusa
il passaggio di lente carovane
alle quali poi accodarsi.
Non avrai più ragione
di temere il gelare della brina
che dimora nella bacca appena colta
e sovente inaridisce quella voglia
di gustarne il sapore.

Ora, il nuovo mattino soffonde luce
tra nicchie di porcellane decorate
e tele di ragno intrecciate
va ad imperlare il tuo risveglio.
Destati ed indossa la gonna in tulle
dimenticata in fondo al baule,
corri oltre i giardini conosciuti
saltando i rovi che celano fragole.
Quando il cielo diverrà mantello nero
per nascondere la terra agli occhi
va tra alti poggi a disseppellire l’oro
e poi vola al limite degli argini
sfiorando remi che frangono correnti.

Sull’impronta dei ricordi,
i tuoi passi sulle punte, anche se incerti
saranno fondamenta d’una purezza mai stanca,
camminamento d’una fantasia mai sazia.
Salpa ora, vai tagliando l’onda
ma non pretendere mazzi di fiori
troverai azalee color malva
nell’incavo della rupe che precipita in mare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOVANNA D'ARCO

 

La voce, sulla riva sinistra della Mosa
ad imbastire poveri raccolti d'orzo,
notti insonni ascoltando Michele
conversando con la mite Caterina
il buio non è stato mai il tuo colore
con fede, corazza e calzamaglia
sposterai montagne e la paura


si confonderà oltre l'orizzonte.
Su per i torrioni d'Orleans
dalla bocca di latte appena munto
le tue acute grida al galoppo
in migliaia schernirono la morte
e la grigia falce tatuata di rose
s'accartocciò per volere divino.

Uomo di chiesa, uomo di potere
che torbido sotterfugio a coprire
i vostri inganni alla storia, nel fuoco
avete spento riccioli d'oro
voce sapiente di donna
e un viso proteso alla pace,
le vostre tentazioni...cani!!.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INSEGUENDO PRIMAVERILI SOGNI

 

Finalmente scenderò verso il fiume
potrò scrostarmi i pollini di altre primavere
rimasti imbrigliati nelle pieghe delle caviglie
quando inseguivo le tue rotte tra le margherite.
Mai si logorano queste scorie, a volte
rinvengono anche sotto le ciglia
nell’attimo in cui vacilla il rinverdire
di uno spento ricordo, soltanto prati
libellule ed il librarsi del sogno con te
per far tornare primavera saltando l’inverno
e basterà il sogno in mancanza dei prati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MERGO, PRIMA DEL GIORNO

 

 Rossa la rosa nell’angolo del quadro
poco sotto la firma goccia di fiamma
è il frusciare del mattino a Mergo
per le strade satinate , vuote di volti
è un casuale inghiottire case senza porte
un abbeverarsi alle ultime stelle
che non danno luce ma solo ansia
nel ripetuto mormorio di perle
che si cela dietro ogni ventaglio:
paese incorniciato da voraci valve.

Si smorzano i lampioni, siedo sulla panca
odo anime disperse cantare con i grilli
nello sfondo d’una campagna
dilaniata dal maquillage più acceso.

Grazie notte,
presto mi raggiungerai nuovamente…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN UOMO

 

Non è affatto vero che un viaggio
nudo attraverso tundre di schegge
ed un asciugarsi con carta vetrata
ti abbiano lasciato illese le vene
nel rauco canto delle libertà.

Sordo il tuo sangue sulla bianca veste
ha voluto risaltare l’affrescarsi
della storia nell’intrico di forme,
la tua carne hai immolato al mondo
per chi soffre e muore senza pane,
la tua voce hai tarpato per liberare
il volo d’eterne parole di pace.

Non importa se inascoltato
il tuo soffio tra lunghi viali d’ulivi
traspirerà per l’intero equatore
e del larice resteranno le radici
a frenare il cedere della falesia.

E’ tutto un lume da qui
al vasto giardino, il tuo nome
ad ogni crocevia sarà un raggio
nell’indicare la speranza
che nessuno più vede.

Laggiù, nell’estinguersi dei rovi
riposa non un santo ma un uomo.

 

 

 

 

 

 

 

 

NODI

 

Dipanare il piano dall’oblio.

Un piccolo lampione
accende di luce
le gocce di pioggia
diviene giorno
in mezzo alla notte.

Dormi ignara
di seta ricoprirò i tuoi seni,
brilla il mandorlo in fiore
l’ansia d’un chiarore lunare
affolla smisurati silenzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DOVE L'EDERA PIU' NON CRESCE

 

Dove l’edera più non cresce
m’avvinco alle certezze in scarna muratura
pietre di fango in posa mal riposta.
Accasciato ai piè del colle
nel tremolio dello sprofondo
spiegavo ali di un nulla senza cieli.
La strana forma intuivo delle nuvole
quando sotto i glicini amore sfioriva.


E’ un rumore lontano
lo scuotere di un battipanni, un brusio di piazze,
un tacco di donna rappreso tra le aiuole.
Non solo colori della natura
un velato scialle in porpora
il giallo che inflaziona solchi senili
e mescola il blu riverso, lacrimato
goccia dopo goccia dai tuoi occhi.

Ne scaverò commosso le radici
nella radura vasta che ormai conosco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BAGLIORI D'ORDINARIA PRESENZA

 

Accendo una lampada stamattina
come se fossi un poeta ispirato
il mio risveglio non ti è accanto
sono un frammento d’universo
impiccato nel miraggio che m’illumina
perso in un deserto senza sole.

Non ti chiederei l’ora ma solo
il mese e l’anno corrente, valuterei
se tollerare le diverse tonalità
che mi propone una giovane aurora.

Ti cerco dietro ogni scricchiolio d’anta
nella torba di vasi riversati dalla bora,
tra le gocce d’una gelida doccia
e nell’incavo d’un bricco fumante latte.

Cerco le polveri che non trattieni
le briciole dei tuoi pasti sotto le suole
ma tu sei rimasta in riva al mare
conoscendo la mia ripulsa per la sabbia,
così per sfregiare la mia anima
senza offenderla.

Piango sulle mie giacche più lise,
nel risvolto qualche capello corvino
singhiozzo di remote tenerezze e l’asola
che non cinge il bottone sbeccato
ma chiude sul tuo sapiente frugare
tra le mie cose più impure,
e cuce in punta di lingua discorsi
mentre, mentre suona qualcuno al portone.

 

 

 

 

 

 

 

SCULTURA



Sono qui a salire scale
scolpite in bianchissima roccia
fronte del santo porticato
che leva a mezzodì sonori calpestii:
il credo delle genti fu mai
un umile prostrarsi al vociare della natura?

Assiso e solo il dubbio
scivola sull’acqua gelida di fiume
tra le nobili dimore del borgo, sfuso
alla pace pallida di monti lontani
è come tenaglia rugginosa sul cuore.

Tanta è la mia colpa d’esser vivo
quanto tutt’intorno odora di morte,
morte d’insigni menti in meritevoli teste
che il mondo hanno plasmato, hanno illuso.
L’importante è credere di poter modellare pietre
meglio di quanto abbia fatto il vento,
qui, mentre attendo tra sponde di tempo
varrò meno d’una zolla che ghermirà il seme
sarò forse uguale a tutti voi flessi sulle panche
quando la polvere ammanterà la terra.
 

 

 

 

 

 

 

ROTAIE SENZA DESTINO



Fiati tranciati in sordi pianti
è doglia sui volti
nella calca dei senza destino:
ha inizio il viaggio di soverchi bagagli.

Treni arroventati
dal ristagno d’uomini, donne
e figli con le nocche tra i denti.
Fuori della feritoia scorre la vita:
agli incroci sfuggenti sorrisi
biondine sottobraccio a divise,
saluti e baci al nostro passaggio
in bicicletta un prete segna la croce.
Nessuno sa delle diverse sorti,
molti sanno di fingere.

Il carbone addensa i suoi fumi,
Il pensiero corre a ieri quando
eravamo fratelli e le parole scaldavano,
mentre ora restiamo aggrappati
per non precipitare ad ogni frenata
affamati alla greppia della speranza.

Non finiscono mai queste rotaie.
L’inferno è lontano,
riverbero d’un sole empio,
varcato il filo spinato nella garenna
scheletri in pastrano ospiteranno
il languire dell’anima.

Da neri camini
La mano del demone sparge ceneri
sopra ignare messi ed acque pescose.
Stanotte nelle baracche allineate
saremo come conig
li derubati del sonno
e domani non avremo più nome.

 

 

 

 

 


 

Piano sesto, senza ascensore

 

Senza ascensore,
color celeste come un cielo desiderato
sei piani tra verde e scuro cemento,
un groppo stringe il cuore lievemente
movendo passi innanzi al tuo portone.

La città, recinto d’urla strozzate
supina giù a valle è solo invito
sguaiato d’una volgare meretrice
a guarnirle l’intero corpo d’insulti.

Dal sesto piano ero un’ingenua creatura
alitavo sui vetri osservando nell’orfanotrofio
giocare anche con niente. La mia vergogna
era troppa per scendere in cortile fra voi
senza che fosse un qualunque Natale.

Seduceva Chopin dal quarto piano,
le sue dita affusolate vorticavano pazze,
dai tasti l’aroma di balsamo alla pesca
inalavo note e i suoi biondi boccoli.

Tredici rampe per isolarmi dal mondo
e la neve saliva quel tardo aprile
come non mai incappucciava tristi pensieri
non solo di morte, ma di ferite già vive.

Sette rampe e mezza per correrti incontro
e gettarti felice le braccia al collo,
ignoravo gli orrori oltre il portone
sulla via che portava verso il teatro.

Risa di cristallo, sacco, orso e gigante
senza ascensore sino al piano sesto...


 

 

 

 

 

 


 

NATALE, d’altro



Per i tuoi occhi d’ebano
che al semaforo porgono rose;
per te, ossa rose dal patimento
che cerchi affetto ai bordi del sagrato;
per voi tutte, streghe e fate
dalle fobie dell’umanità ammazzate;
per loro, derelitti incompresi
di noi vampiri nutrimenti voraci,
cosa sarà il prostituirsi di stelle e lustrini
per le vetrine satolle e brille,
tra gas e ciance l’agonizzare d’abeti,
candida noncuranza di frettolosi visoni.

Il nostro Natale ha passato la soglia
con la scala mobile al piano secondo
tracima sorrisi da spendere facili,
spese futili non d’un giorno qualunque…
e intanto Gesù resta fuori, nudo e reietto.
A noi non resterà poi che tritare orazioni
ed al tapino trovato a portata di mano
tirare nella tazza del cane, i soldi minuti,
stringere pace alla messa di metà notte
con chi domani riprenderemo a disprezzare,
e via così…non è facile dilatare il Natale!

Il prossimo anno spero d’arrivarci esangue
in mezzo a coloro rimasti fuori della soglia
sul margine strabico della folla.

Quali auguri

 

Quali auguri di fine anno
andati dispersi nell’onda
cartoline a migliaia di finti filmati
partiti i buon anno mai recapitati.

Quali auguri
per i litorali senza foresta
senza più legna intagliata in bare;
col riso annegato, cos'altro mangiare
tra spenti occhi dentro una cesta.

Quali auguri
per soldati morti durante una gita
a loro molti hanno confidato
che la morte è bella quanto la vita
e dal popolo sempre sarai lodato.

Quali auguri
a chi con i borselli già pasciuti
continua ad arraffare ciò che vede
e a chi vive dei nostri rifiuti,
a chi allegro vende false obbligazioni
e a chi lava vetri per sei lerce razioni.

Quali auguri
a chi esplode in un campo di papaveri
e a chi di mano cade una siringa nera.
Muri scritti nei cessi d’una scuola
bimbi persi dietro casa oltre l'aiuola.

Auguri a chi è vivo e crede che lo sarà per altre ore,
a chi è sicuro della venuta d’un anno migliore
a chi è morto e non ha più di questi problemi;
auguri a te che eleverai alberghi da domani
a te che vuote azioni venderai e comprerai,
a te che per fame morire mai ti stancherai,
a te che casa mai avrai, a te che di piantagioni vivrai.

Auguri
a tutti noi che mal ci sopportiamo
stretti nella morsa tra cielo e terra
abitiamo la pace per farci la guerra,
a voi che mi leggete e sopportate
a me che scrivo senza grandi pensate…

 

 

 

 

 


 

RAMESH è il tuo nome



Acre il fumo, fa lacrimare gli occhi
carne anonima arde sino alle nubi.
Le noci di cocco spuntano dalle sabbie
rapprese al non senso della vita
tra dita protese e maceri ocra e vermigli,
Shiva creatore ha purificato anche le vesti.

Dormivamo lì, io e Ramesh
ai bordi della spiaggia
con le nostre donne e i bambini
a scalare montagne d’immondizia.
L’altra notte Madras era lontana
brillava fioca, d’una luce strana,
cantavamo la povertà ai nostri dei
nello stomaco un presentimento abboccò.

Nessuno conosce i nostri nomi,
tranne la notte che veglia su noi.
L’aurora ha portato via il tuo
insieme a tua moglie, e la marea
ha reincarnato i tuoi sei figli
tra pesci immemori dell’oceano.

L’amata natura ora ti brucia,
come un sudicio straccio
ripulirai coscienze sublimi, solo io
ovunque sarai ricorderò il tuo nome,
Ramesh amico di rughe e bocca salata
che solo sorrisi poteva donare.
Solo io… aquila
sulle vette cercherò il tuo nome.


 

TEMPESTA a TINDARI
(Farsa e sciagura assieme per ischerzo)

Battute dal mare esasperate rocce
logorate, lucide d’acqua
ergono frange di spuma
zampillando, grondando.
Zappate dall’onda insistente
attendono la fine.

Gabbiani…raschiano il cielo
aleggiano tra nubi
zavorrate di pioggia
intrise nel cielo amaranto.
Fragile vela abbarbicata
al vento svetta vibrante.

Inclina, sussulta
nel gioco d’onde opprimente
sta per incanto quietato
un attimo il vento.
Improvviso
saetta livido il lampo
trema l’aria
arrogante, la pioggia s’avventa
attimi terribili, liberanti
restate che v’assapori
mai tornerete.

Ogni anelito
nel nascere è vivo soltanto
intorpida istante su istante
affogato nel tempo
invano, negli irti frangenti
urgi alla riva che accoglie
niveo d’infide spume
nascosto è l’approdo
ormeggia lontano, oh vela
meglio è cappeggiare
e aspettare che passi..bufera.

declina col giorno che muore
ogni attesa
l’alba di un altro domani
cela sempre qualcosa
in cui si possa sperare.
Soavissimi rosa ha l’aurora,
sul mare pacato
immensa è la pace.
Mandate dal vento
occhieggiano lievi, posate
zagare bianche, sull’acque
odorosi messaggi
espressioni silenti della riva lontana.
 
 

 

 

 

 

 

COME L'ALBA MUORE SULL'ACQUA

L’alba, melodia di flebili grida
iride opalescente che il mondo risucchia
attinge con gola riarsa a stille di cielo
straziato nottetempo da scuri silenzi.

Stormi d’ali forano l’immenso
fiondati verso lontani chiarori
più che tremule lucerne notturne.
Le onde risalgono in affanno
muri muschiati, mura friabili
fra cui il sonno vibra,
leggero palpito d’ansie
sugli esili argini indugia.

L’amore è strada che dalla notte
risorge da fuggevoli spazi
rintocchi di campane trattiene
fluttuando sul vagar di note
e chissà…quali fondi di ricordi
indolenti canali d’acque scure non scosse.

Ora, se tu fossi qui
nel trasecolato bosco del risveglio
i tuoi passi sarebbero impronte
nei fanghi del mio curvo rimorso.
Ma tempo un attimo
riafferro la realtà dell’ombra
nell’amata tua assenza e
del sole che ancora mi resta
come alba che già muore sull’acqua
luce non posso più goderne.
 
 
 

 

BASSORILIEVO D'ORIENTE

Timido nel varcare soglie intentate
non calpesterò i semi innocenti
posati tra fessure decorate.
Con piedi nudi percorrerò tappeti
di lievi inviti verso sete lucenti.
Porpora ed azzurro
colori di lanterne sospese
sospirano dietro velati separè
e lo sguardo sottile accompagna
il pavido guizzare del mio cuore.
A terra con gambe incrociate
sorseggerò dalle tue labbra
la tisana del rispetto inesplorato.

Aroma di menta e zenzero
dal tenue muovere del ventaglio
sorvolerò le pagode assonnate
come viaggio di parabole eterne
da cortili a giardini segreti,
su misteri di tegole smosse,
nella sera blu d’inchiostro
chiazze d’eletta saggezza
le tue parole a risollevarmi ancora.
 

 

 

 

 

SOLITUDINE

Lunghe notti sono passate
bevute dal cupo dell'immenso
i sogni non indorano più
colline colanti nel cosmo,
mai dimenticherò i loro prati.

Non valicherò queste montagne
che spezzano l'armonia della piana.
Il coraggio è partito senza me
sopra il mio esile corpo
scorrono inenarrabili carovane
nel deserto aspro che m'inebria.
 

RICORDI di SERE AUTUNNALI

Di nebbiose sere autunnali
ricordo l’aroma di caldarroste
misto a tabacco al mentolo
di quella tua goffa risata
mentre gioiosi cuccioli noi
accovacciati attorno a te
t’arruffavamo l’irsuta barba
ove nascondevi la tua vita
luogo di ferite ancora aperte.

Bocche voraci ed occhi sgranati
verso il sipario tremolante
delle tue storie vissute e passate
di amori, guerra e mele rosa.
Come quattr’ossa di ragazzo
dalla steppa russa tornarono
senza più denti e capelli
e gelide lacrime tra le mani.
Lungo il ritorno di mezze case
litanie di donne ed urla strazianti
la nera divisa abbandonasti
a macchiare la neve di sangue.
Di pane coi vermi poi raccontavi
d’amori perduti nell’ombra d’un rifugio
treni colmi in partenza tornati vuoti
e tanto odio più grande fu l’amore.

E del nonno il berretto da ferroviere
portato con sé in quel boato di vento
tra sirene notturne del dopolavoro
narravi tra i miei singhiozzi
per quel suo volto mai baciato.
Cantastorie di decomposti paesi
di genti di un Dio senza conforto
nate già con l’ansia di morire,
quanto mai ti ringrazierò, zio
per i tuoi bocconi di verità
poco speziati appena scottati
che hanno cresciuto l’uomo
delle primavere d’incolti germogli
che mai e poi mai di guerra intenderà.
 
 

 

 

 

 

 

 

 
CONSUMARSI di PAGINE AVORIO

D’un viaggio mai iniziato
sfuse le idee che restano
scene solo inquadrate
fotogrammi senza scatti
svaniti sfogliando pagine
d’un album avorio di sogni.

Queste ore mi grattano sulle spalle
come tarme di qualche malattia
divorandomi il tempo che rimane
per poter pettinare canuti pensieri.
Calzini spaiati asciugati al sole
ho ritrovato in fondo al cassetto
uno rosso, l’altro nero
a seconda del tono della voce
che va e viene, sirena nella notte
fuori del porto la nebbia è burrasca.

Rimanesse una sola ora da vivere
col sorriso poserò il piede sulla fune,
ben altre sono le sofferenze al mondo
piango per loro, per le più taciute
io ho già acquisito la felice morte
ed è anche fin troppo…
 
 

 

 

 

 

 

NEL BOSCO

Che m’allontani dalla verde radura
avvezza a lamenti notturni
e vada per sentieri sottesi a mesti tralci
incatenando il vagare al bosco spettrale

Corra lesta la ragion pura
su ricordi di ciondolanti letture
e della volontà della natura
parlino i biancospini, claudicando passi
nel mortificare la pelle che m’aliena.

S’imponga sul fronte dell’alta faggeta
un riflesso d’inconsce paure, avviluppate
al serrato senso dell’esistenza
che mai potrà illustrarne colori.

Livido, finisce l’acciottolato, lì ai margini
quando il crepuscolo guaisce lontano
ed oltre il conosciuto allunga rame nodose.

Che mi sorregga la brezza serale,
aneliti e dubbi d’Immanuel ed Arthur
m’accudiscano per l’ultima curva
sino all’amico muro, tra la radura
dentro quella tepida e gelida baita
di minestre lasciate evaporare
d’amore stanco d’aspettare, e poi
tornare tra scialli e bianche vesti...
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 
ARMONIA di CONTRASTI

-Armonia di contrasti,
neve dai riflessi casti
nata dalla stellata volta
ammanta questa valle incolta
sommersa dal pianto in Terra;
mieti le tue messi in serra
dove vento teso più non spira
recidi folte fronde dell’ira
accogli l’afflato di chi sospira-
 

 

San Paolo entro le mura

Frusciare instancabile d’angeli
escono alte le voci dal coro
farfalle d’un requiem abbozzato
vibrano liuti sin dentro le vene
soprano del tempo è l’abside intatta.

In groppa a Pegaso guizza il do minore
tra le ogive a mezzo contralto:
la meraviglia di ciò che vedo e sento
cupa e solare coglie il profondo
dei miei dilemmi vacanti fra note
e note d’ira e misericordia alterne
qui nella culla d’acuti grevi
e colonnati ove nascono sogni.

 

 
Ricordo quando i vecchi palazzi erano ricamati dalle impalcature
e passando sotto ridevamo prendendoci a spinte,
strusciavamo lungo il corso spettinato e roboante
gettando occhiate impavide alle ragazze sculettanti a braccetto,
odorose di violetta sin quasi alla nausea.
Conquistare un angolo di marciapiedi era impresa scomoda
e sotto l’occhio beffardo di amici e baristi fermare la biondina
che m’attirava per la sua aria svagata e quelle gote lentigginose.
Dietro l’angolo percepivo i loro sghignazzi, ma io rapito
dal suo sguardo mi disponevo a parlare anche di “disco”
(il jazz è stata sempre la mia passione)
cercando dotte sfumature da Ibsen a Pound.

Ricordo le nostre folte chiome avvolgere la timidezza
emulando il sessantotto dei fratelli maggiori
coscienti già di essere fuori moda, figli di fiori appassiti
d’una sfasata generazione tra le note di De Andrè.
I padri erano montagne ardue da scalare
ed avevano gusci troppo piccoli per nasconderci dentro
ma allora le pagine ingiallite d’un libro erano preziose,
preziose quanto la libertà con cui ci colmavamo la bocca.
Altro aroma aveva la pioggia nell’attendere in coda
fuori della cabina telefonica in cerca di numeri e amori,
_“sai, oggi non l’ho vista”_ per poi telefonarti sperando
di trovarti a casa aggrappata ad uno squillo.

Allora l’ecologia era solo nella testa di Bateson
aspettavamo ancora l’imprinting come le anatre di Lorenz
per poter apprezzare la maternità delle nostre idee e
non sorprendeva il caldo con estate e la neve con l’inverno.
Esistevano solo raccolte differenziate per i pensieri
quando il ”Che” era vicino quanto la Cina e Guccini;
attorno a piazza Diaz volavano le sprangate dei neri
a spaccare chi aveva l’orecchino, perchè gay o di sinistra,
e tanto, troppo ho visto per non poter giudicare.
Ora i neri son altro ed anche mio zio ha il piercing,
ma questa è altra storia….

Quante richieste e proteste, uova marce e ginocchia sbucciate
nell’incomprensione di generazioni separate da incolmabili vuoti,
della fame nel mondo si parlava, poco si sapeva
si facevano cortei e banchetti sotto gli archi a raccoglier firme
ad oggi poco è cambiato, forse solo teste ed occhiali.
Il dolore aveva un sapore più acre e scrivevo al mondo controvento
senza che nessuna misera lettera sia mai tornata indietro al mittente.
Ancora attendo il ricadere di quelle urla lanciate al cielo
mentre l’amarezza mi pervade se penso che subito fuori città
esplodeva la quiete delle nuvole oltre inutili frastuoni,
…ora, il verde s’intravede a chiazze sdrucite.
 
 

 

 

 

 

 

RISVEGLIO TRA I COLLI

E’ un affresco creativo svegliare i calanchi
piccoli dettagli si posano su stormi di fantasie
l’eternità sfuma celere al levare dell’orizzonte
sul placare di dossi ancora riversi nella notte.

Un ronzio d’effluvi confonde sguardi violando
l’intimità di finestre singhiozzanti ad oriente
vestaglie della nostra sincera nudità mai svelata
ora radiosa come seducenti rasi stesi a bucato.
 

 
 

 

 

 

La proprietà letteraria è dell'autore. Ogni riproduzione è vietata.

 

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con cui ci colmavamo la bocca.
Altro aroma aveva la pioggia nell’attendere in coda
fuori della cabina telefonica in cerca di numeri e amori,
_“sai, oggi non l’ho vista”_ per poi telefonarti sperando
di trovarti a casa aggrappata ad uno squillo.

Allora l’ecologia era solo nella testa di Bateson
aspettavamo ancora l’imprinting come le anatre di Lorenz
per poter apprezzare la maternità delle nostre idee e
non sorprendeva il caldo con estate e la neve con l’inverno.
Esistevano solo raccolte differenziate per i pensieri
quando il ”Che” era vicino quanto la Cina e Guccini;
attorno a piazza Diaz volavano le sprangate dei neri
a spaccare chi aveva l’orecchino, perchè gay o di sinistra,
e tanto, troppo ho visto per non poter giudicare.
Ora i neri son altro ed anche mio zio ha il piercing,
ma questa è altra storia….

Quante richieste e proteste, uova marce e ginocchia sbucciate
nell’incomprensione di generazioni separate da incolmabili vuoti,
della fame nel mondo si parlava, poco si sapeva
si facevano cortei e banchetti sotto gli archi a raccoglier firme
ad oggi poco è cambiato, forse solo teste ed occhiali.
Il dolore aveva un sapore più acre e scrivevo al mondo controvento
senza che nessuna misera lettera sia mai tornata indietro al mittente.
Ancora attendo il ricadere di quelle urla lanciate al cielo
mentre l’amarezza mi pervade se penso che subito fuori città
esplodeva la quiete delle nuvole oltre inutili frastuoni,
…ora, il verde s’intravede a chiazze sdrucite.
 
 

 

 

 

 

 

RISVEGLIO TRA I COLLI

E’ un affresco creativo svegliare i calanchi
piccoli dettagli si posano su stormi di fantasie
l’eternità sfuma celere al levare dell’orizzonte
sul placare di dossi ancora riversi nella notte.

Un ronzio d’effluvi confonde sguardi violando
l’intimità di finestre singhiozzanti ad oriente
vestaglie della nostra sincera nudità mai svelata
ora radiosa come seducenti rasi stesi a bucato.
 

 
 

 

 

 

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