Alfonso Picciullo

Racconti

Nella città del sole

Le tate

       

 

 

Nella città del sole

Nella città del sole pioveva ininterrottamente da cinque giorni e anche quella mattina, quando una frustata di pioggia colpì Antonio Amoruso in pieno viso, mentre si accingeva di buon ora ad aprire il portone del Palazzo Ascione a Taverna Penta, gli Dèi non sembravano ben disposti. Era la Vigilia di Natale.

Tanto meglio…. pensò Antonio Amoruso… la pioggia e il freddo avrebbero meglio custodito l’intimità famigliare che in quel Santo giorno egli tanto sentiva.

Di quel palazzo, da tanti anni, Antonio era il “ guardaporta”(portinaio), posizione di prestigio nella città del sole, soprattutto negli anni in cui, ancora, i palazzi del centro storico comprendevano l’intera scala sociale della città…ben presto palazzinari grandufficiali e Cavalieri senza macchia li avrebbero svuotati dei ceti più elevati per riempire i nuovi quartieri residenziali .

Quella portineria Antonio se l’era conquistata sul campo, con atto “eroico”, il 4 agosto 1943…in verità quel giorno Antonio si trovava in compagnìa della signorina Adelina Taragna, in prossimità dell’altare della parrocchia del Sacro Cuore al cospetto di don Saverio Scalzone il parroco…insomma si stava sposando… allorquando le prime bombe si abbatterono sulla città…un bombardamento da alta quota, alla cieca, per sfuggire al controllo antiaereo, e la sirena d’allarme non era scattata … la fuga precipitosa…la gente per i vicoli correva cercando di raggiungere il “grottino” che era il più vicino rifugio antiaereo…i boati delle bombe… le grida, le invocazioni…poi la voce che il rifugio era stato colpito…in un attimo la sensazione di averla scampata bella e subito dopo la disperazione di non sapere dove cercare riparo, mentre già le colonne di fumo e di polvere erano visibili ben oltre l’altezza dei palazzi…..e proprio da una nuvola di polvere che si diradava Antonio e Adelina videro improvvisamente ricomporsi l’immagine di un uomo chino su di una donna anziana. La donna era viva ma in preda a malore, probabilmente per la fatica della fuga e per lo spavento, senza pensarci un attimo Antonio aiutò l’uomo a tirar su la donna e insieme corsero, per quel che potevano, verso la parte alta dei Quartieri…a quel punto l’unico posto dove cercar riparo era la galleria della funicolare, alla fermata del Corso. E lì rimasero per due giorni…tanto durò quel bombardamento. Quell’uomo era il commendatore Giuseppe Ascione, proprietario del palazzo e l’anziana signora era sua madre.

Da più di vent’anni Antonio indossava la sua divisa di guardaporta con lo stesso orgoglio di un generale di corpo d’armata.

Da più di vent’anni Adelina portava sulle spalle tutto il peso dell’eroismo di Antonio, pulendo le ampie scalinate, i pianerottoli e il grande cortile, mai troppo grande, comunque, per contenere tutta la debordante esuberanza riproduttiva del proletariato che abitava le case del piano terra, spesso costituite da un’unica stanza: quei mascalzoncelli si infilavano dappertutto e quando pioveva le loro scorribande su e giù per  le scale diventavano fonte di particolare angoscia per Antonio, la cui funzione comprendeva anche la tutela dell’ordine e del decoro del palazzo. Il concetto di decoro, in realtà, cominciava ad assumere un qualche significato solo dal primo piano in su: al primo piano il ceto impiegatizio sembrava passarsela meglio ma sapeva Antonio quanti e quali conti, ingiunzioni di pagamento, doveva inutilmente recapitare…..

Dal secondo al quarto piano si passava dalla piccola borghesia bottegaia ai ceti professionali più evoluti, allora gli appartamenti aumentavano di dimensioni e le targhe alle porte sempre più imponenti…. Avv., Dott. e Grand Uff, abitavano l’ultimo piano mentre già negli appartamenti del secondo il sole riusciva a penetrare. Era fra il terzo e quarto piano che Antonio sentiva veramente il senso profondo di quella divisa, quando anche la consegna della bolletta del gas assumeva la gravità di una missione molto delicata, un’incombenza che solo lui, e non per esempio Adelina, avrebbe potuto portare a termine con tutta la solennità che il caso richiedeva.

Ed era proprio fra il terzo e quarto piano che le speranze d’Antonio di racimolare una buona “mazzetta” di Natale avevano reali probabilità di concretarsi, il Natale passato aveva messo assieme ben dodicimila lire con le quali era riuscito finalmente a comprare il cappotto nuovo a Adelina…quello vecchio era stato rivoltato tante di quelle volte…

Povera Adelina, da tanto tempo ormai l’eroismo d’Antonio non gonfiava più le lenzuola….ma era Natale…chissà..

La distribuzione della posta era l’unica, ma in compenso delicatissima, attività che Antonio svolgeva durante la giornata, per il resto passava il tempo a “mettere in croce le parole” come diceva Adelina, vale a dire a fare le parole crociate, seduto nella sua guardiola come fosse il comandante dell’“Andrea Doria”.

L’orizzonte di un guardaporta non è molto ampio, pochi metri quadrati…giusto la luce del portone d’ingresso e in quello di Antonio c’entravano appena il negozio di Mimì il pesciaiolo e il banco di sigarette di contrabbando all’angolo del vicolo, fu proprio una delle due prostitute che lo presidiavano che per prima, quella mattina, lo aveva salutato facendogli gli auguri di Natale.

Quella visione era sempre la stessa, giorno dopo giorno, anno dopo anno, anche le signore erano le stesse: con molti anni in più e molti clienti in meno. Accanto al banco delle sigarette e al braciere che lo riscaldava, anche quella mattina s’era piazzato Nicola Pescicelli col suo banchettino di “dimostratore”: Nicola era un grande invalido di guerra, nel senso che aveva perso l’uso di una gamba durante un bombardamento mentre cercava di svaligiare un appartamento lasciato incustodito, finita la guerra aveva intrapreso un po’ tutte le attività tipiche dei “grandi invalidi di guerra” fino al giorno in cui gli capitò l’occasione che avrebbe dovuto cambiare la sua vita : qualcuno aveva inventato un portentoso attrezzo, non dissimile da un normale coltello da cucina, con il quale sarebbe stato possibile fare cose straordinarie e soprattutto avrebbe ridotto notevolmente il lavoro in cucina, da quel giorno Nicola aveva preso a pelare, affettare, incidere e scolpire patate al fine di dimostrare le prodigiose prestazioni del suo coltello; nel corso degli anni non ne aveva venduti molti di quei coltelli ma in compenso aveva parecchio affinato la sua arte, al punto di farne il vero e proprio oggetto di quelle dimostrazioni; la fama dei suoi virtuosismi aveva ormai superato i confini di Taverna Penta e venivano a vederlo e ad applaudirlo persino dalla Pignasecca: era diventato il più grande scultore di patate che si fosse mai visto, di lui si raccontavano mirabilie… con le patatine novelle realizzava incisioni degne del Cellini mentre i tuberi più grossi li utilizzava per delle vere e proprie sculture, prediligeva riprodurre i più importanti monumenti…memorabile un Colosseo che aveva realizzato due anni prima da una grossa patata a buccia rossa. Per la verità, all’inizio i suoi unici soggetti erano stati le tette e i culi delle due signore che da anni ormai esercitavano la professione all’angolo dello stesso vicolo, era stato Antonio che l’aveva incoraggiato ad andare oltre, e proprio Antonio gli aveva suggerito l’opera che avrebbe definitivamente consacrato la sua arte, il Maschio Angioino con la perfetta riproduzione dell’Arco di Trionfo d’Alfonso d’Aragona. Nicola aveva accettato la sfida consapevole dell’enormità dell’impresa ma ugualmente consapevole del fatto che in quel cimento avrebbe trovato il senso di un’intera vita , rimaneva un unico grande rammarico: le sue opere non potevano essere conservate ed erano inesorabilmente destinate a scomparire nel breve volgere del tempo, esattamente come la sua arte. Ma era Natale….e quel giorno Nicola aveva deciso di estrarre dalle sue patate solo il Bambin Gesù.

Ma era Natale…e Antonio non aveva nessuna intenzione di lasciare anche solo per un attimo la guardia del palazzo, era giorno di mazzetta, e perciò non potette assistere alla nascita del Bambin Gesù dalla patata di Nicola.

Fin dal mattino presto aveva preso a spazzare il cortile, cosa che non faceva mai, con l’intento recondito di intercettare gli inquilini che uscivano, sapeva che dai lazzaroni del piano terra non c’era da aspettarsi niente, sapeva anche che quelli del primo piano mettevano delle vedette alle finestre che affacciavano sul cortile aspettando di cogliere un momento di distrazione di Antonio e poter uscire senza incontrarlo, ma lui non mollava e di là prima o poi tutti sarebbero dovuti passare; in quella posizione strategica Antonio era in grado di intercettare chiunque tentasse di uscire o di rientrare, ma da quella posizione il suo orizzonte si restringeva ulteriormente e comprendeva ormai solo la pescheria di Mimì

Tanto meglio…pensò Gelsomina dalla vasca dei capitoni nella pescheria di Mimì, la pioggia ed il freddo avrebbero calato un velo di pudore sull’orribile fine che l’attendeva.

Gelsomina era un superbo capitone che fin dal mattino osservava con giustificata preoccupazione tutto quanto si agitasse intorno a quella vasca. Anche l’orizzonte di un capitone non è molto ampio, perennemente oscurato dall’ombra della mannaia che prima o poi un novello Robespierre avrebbe abbattuto sul suo collo. C’era ben poco di dignitoso nella morte di un capitone, ma a ben vedere anche nella vita…. a cominciare da quel sostantivo maschile, capitone, per indicare la femmina della specie e quello femminile, anguilla, per indicarne il maschio….un maschio peraltro noto per la generosità delle sue prestazioni… Tutto ciò era fonte perpetua di derisione e barzellette oscene che circolavano nel mondo acquatico. Con l’approssimarsi dell’Evento era visibilmente aumentato il subbuglio nella comunità dei capitoni, ormai tutto si sapeva sul funesto epilogo di quella giornata e quel che si sapeva lo si doveva ai racconti, ancor più concitati, dei pochi che erano riusciti a scamparla…ma allora dunque c’era una possibilità di salvezza? Si, c’era e Gelsomina lo sapeva….serviva uno scatto improvviso, una misurata contrazione dei nervi e poi lo scatto, deciso, possente, proprio quando la lama si sarebbe trovata nel punto più alto pronta ad abbattersi sul collo….è in quel momento che la tensione del boia si sposta tutta sul braccio che impugna il coltellaccio e molla su quello della presa…quello sarebbe stato il momento decisivo!

Nella città del sole la fuga del capitone, la sera della Vigilia, non è un incidente ma un rito, un osceno rituale di morte che si consuma come una corrida domestica… vince chi è più lesto e scaltro, se riesci a guadagnare il bagno o una posizione d’alto valore strategico, allora puoi farcela…ma se sono loro, gli Umani, più lesti e scaltri, allora sei fritto…nel vero senso della parola!

Già da alcuni giorni Gelsomina aveva provato la manovra tutte le volte che Mimì infilava il braccio nella vasca: i risultati sembravano incoraggianti, ma era solo un allenamento…avrebbe avuto abbastanza sangue freddo nel momento cruciale

Ormai s’era fatto buio ed erano già le cinque quando Adelina uscì di casa per andare a comprare il capitone, non doveva fare molta strada…la pescheria di Mimì era proprio di fronte…e poi aveva già tutto predisposto per il cenone di quella Santa Sera, quando si sarebbero seduti, come tutti gli anni, assieme ai loro parenti…come tutti gli anni a casa sua perché mai e poi mai Antonio avrebbe potuto lasciare incustodito il palazzo: l’intero ordine sociale poteva essere sconvolto.

I lupini erano già nel sugo di pomodoro pronti a schiudersi al momento opportuno, i carciofi ed il baccalà pronti infarinati per la frittura, l’insalata di rinforzo già si profferiva come una puttana, la frutta secca, gli struffoli, le paste reali e i rococò, e poi il panettone con l’immancabile discussione se fosse migliore quello Motta o l’Alemagna…mancava solo il capitone. Come tutti gli anni anche quella volta, con tutto quel ben di Dio, nessuno avrebbe mangiato il capitone che, come tutti gli anni sarebbe stato riciclato, condito con olio, aceto e prezzemolo, a Santo Stefano….e come tutti gli anni Adelina avrebbe sentenziato: l’anno prossimo niente capitone!

 

 

 

"Le tate"

 

Mio nonno era un ragazzo del ’99…di quelli che nell’ottobre del 1917 partirono per il fronte, appena diciottenni, “Per far contro il nemico una barriera”. Non so se ebbe mai modo, magari mentre muto fra i “muti fanti che marciaron quella notte”, di trovare perlomeno bizzarra l’idea che la Storia potesse aver bisogno proprio di lui, un lazzarone dei Quartieri, per restituire “Onore” e “Lustro” alla Patria mortificata…di certo le Grandi Potenze ne rivendicavano il sangue: ma non l’ottennero, perché mio nonno ritornò e questo fatto sta all’origine del caso che io possa essere qui a scriverne.

Anche il fratello di mia nonna era partito per la Grande Guerra e con lui i mariti e i fidanzati delle sorelle: loro non tornarono e questo fatto sta all’origine di quella galleria di vecchie zie che, mai più sposate, gravitarono per circa mezzo secolo intorno alla casa e alla famiglia di mia nonna, seguendo un antico costume della società napoletana, secondo il quale i congiunti più stretti, che non avevano una propria famiglia, venivano, di fatto, inglobati in quella più vicina. Esse arrivavano la mattina di buon ora, generalmente avendo già provveduto a qualche piccola commissione per conto di mia nonna, partecipavano discretamente alla vita famigliare in tutte le sue manifestazioni e, soprattutto, si dedicavano all’intrattenimento di noi bambini, esattamente come avevano già fatto, prima di noi, con i nostri genitori.

Verso sera se ne tornavano alle loro case, curve sotto il peso degli anni, del nulla e del buio dei vicoli che le inghiottiva all’angolo delle Cavaiole. Poi fu la Morte ad inghiottirle, una dopo l’altra e ciascuna ignorando la sorte delle altre.

Mia nonna fu l’ultima ad andarsene, preceduta nel Viaggio anche da mio nonno; la sua morte permise l’introduzione di qualche novità in quella casa, altrimenti rimasta uguale a se stessa nonostante l’incedere del tempo e del progresso: vi entrarono, finalmente, il frigorifero, la lavatrice e il ferro da stiro elettrico, mentre fino a quel momento solo il televisore e il telefono avevano recato testimonianza del ventesimo secolo, purchè ci si ricordasse di staccare il telefono quando la si lasciava sola in casa. Ma soprattutto, mia nonna portò via con sé tutto quel carico di morte che a volte sembrava avvolgere la casa, tutti quei fantasmi che la popolavano più dei vivi. Troppi morti, è vero, ma anche tanta macabra e pagana ostinazione nel volerli tenere in vita. Il comò di mia nonna sembrava un camposanto, un’apparecchiatura di morte fatta di fotografie sbiadite e reliquie d’ogni tipo, persino una ciocca di capelli religiosamente custodita in una teca.

Durante i temporali, che lassù facevano davvero paura, tutta quest’apparecchiatura era trasferita sul davanzale della sua finestra, doviziosamente raccolta intorno ad un busto di bronzo raffigurante S.Gennaro, affinché proteggesse la casa dalla forza distruttrice della natura, e ad ogni più fragoroso tuono saliva il tono e il ritmo delle implorazioni di mia nonna e delle sue sorelle, che invocavano e chiamavano, a loro protezione, tutte le divinità, santità e beatitudini di cui il Cielo potesse disporre e, ove non bastassero, tutte le anime dei defunti di cui non mancavano mai di enumerarne, a giusta guisa, opere e virtù. Le implorazioni erano altresì intercalate da un rosario codificato di imprecazioni e parolacce che mia nonna rivolgeva all’indirizzo di coloro che, con le prime esplorazioni dello Spazio, andavano a “sfrugoliare” e scatenare l’ira di Dio. Cessata la tempesta, l’intera folla di anime beate veniva premurosamente riportata al suo posto, badando a ringraziarle e baciarle ad una ad una, ciascuna con una personalissima formula che, ancora, n’enunciasse le virtù.

Di notte, il camposanto da camera era illuminato da piccole e tremule lampadine che proiettavano sulle pareti della stanza ombre che assumevano di volta in volta le forme più inquietanti, minacciosi profili che si allungavano e contraevano nello spasmo della notte, che mi costringevano a rifugiare la testa nel buio sotto le coperte e che non mi facevano dormire, specie se durante il giorno ero stato intrattenuto dai deliranti racconti delle vecchie zie: morti e ammazzamenti, spiriti maligni, e talvolta benigni, che andavano ad inquietare le notti dei vivi.

  Le adorabili vecchiette erano semianalfabete e i loro racconti potevano solo essere stati appresi attraverso la trasmissione orale di antiche leggende popolari, che sicuramente avevano subito variazioni e distorsioni di volta in volta legate alla fantasia e allo stato d’animo del narratore di turno e loro stesse non mancavano di mettercene di proprio conto, la dovizia dei particolari era la loro specializzazione: cavità oculari sanguinolenti, carni putrefatte e verminazioni erano il loro marchio di fabbrica, un vero valore aggiunto. Qualche rara e sorprendente escursione nella letteratura ottocentesca serviva solo a confermare la loro vocazione al martirio: il loro cavallo di battaglia era, manco a dirlo, “Sangue Romagnolo” dal “Cuore” di De Amicis a testimonianza, anche, della loro inflessibilità pedagogica…ma sull’assoluta fedeltà al testo non potrei giurare.

Né mancavano, naturalmente, i racconti inventati sulla Grande Guerra, che per loro rappresentava un’autentica epopea per come ne aveva determinato il destino: qui i morti si contavano a migliaia, ma ad attrarre la loro attenzione erano solo quelli che, nottetempo, avevano l’abitudine di lasciare le proprie sepolture per ritornare sul campo di battaglia in cerca della gamba, del braccio o quant’altro vi avessero perduto. Se poi si provava ad ambientare siffatta truculenza nelle notti lugubri dei Quartieri, allora l’effetto era di prim’ordine.

Il mio quotidiano andirivieni dal mondo dei vivi a quello dei morti non si esauriva certo in questo: c’erano, infatti, tutte le occasioni in cui ero tenuto, maggiore fra i nipoti, ancorché bambino, ad assistere ed onorare la Morte in tutti i suoi riti, dalle veglie funebri alle sepolture, e finanche alla riesumazione di cadaveri ormai asciutti e incartapecoriti, perciò pronti per essere deposti nelle nicchie murarie. Ricordo ancora quello di mio nonno che, estratto dalla bara, e spolverato, assomigliava tanto a quei manichini di cartapesta che vedevo nelle botteghe dei sarti.

Tutto questo, per la verità, non sembrava turbarmi più di tanto ed, anzi, a parte qualche mezza nottata di sonno perso, eccitava ed alimentava, in me, la curiosità un po’ morbosa di spiare la Morte come attraverso il buco di una serratura.

Particolarmente emozionanti, poi, erano i pomeriggi che trascorrevo a casa di zia Maria, altra vedova bianca della Grande Guerra, la strega, come la chiamavano le sorelle a causa dei suoi trascorsi giovanili di medium e cartomante; la sua casa era un museo dell’occulto anche se i vecchi arnesi del mestiere servivano ormai solo nei comuni impieghi domestici, come il bellissimo tavolino a tre gambe, formato dal piano ricavato da un tronco d’ulivo e da tre grossi rami intrecciati che lo reggevano. A quel punto della propria vita, la zia Maria volgeva il suo spirito verso le Alte Volte Celesti rinnegando le antiche superstizioni, ma non resisteva alla tentazione, con la scusa di intrattenermi, di impugnare un mazzo di carte… un normale mazzo di carte da gioco perché non voleva che io guardassi o toccassi le beffarde raffigurazioni dei tarocchi… e svolgerlo in maniera tale da scoprirvi “cosa” in “quel momento” stesse facendo lo zio Romeo; lo zio Romeo era un suo nipote che era andato a vivere con lei dopo la separazione dalla moglie, ma in “quel momento “, di solito, lo zio Romeo era a lavoro: cosa mai poteva fare?

In realtà, più che un gioco era un’ossessione, la sua, e in quelle carte cercava solo di intravedere e possibilmente intercettare i pericoli che, sotto le spoglie di qualche grazia femminile, avessero potuto insidiarlo.

Cercava una femmina in quelle carte, ma non trovò mai il volto di quella che di lì a poco si sarebbe portato via lo zio Romeo: la Morte.

E non l’aveva intravista nemmeno nei tarocchi che..avevo scoperto.. usava ancora; l’avevo capito perché sempre di nascosto, andavo a cercare il mazzo dei tarocchi in fondo ad un cassetto e tutte le volte ne estraevo la carta che più mi incuriosiva riponendola poi all’inizio del mazzo: un grande scheletro avvolto in un lungo mantello nero, seguito da un cane, e che recava una grande falce sullo sfondo di un campo di grano. Era la carta che rappresentava la Morte, e non la ritrovavo mai all’inizio del mazzo. Ero dunque stato io a scombinare le carte nel destino dello zio Romeo?

 

 

 

 

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